Si chiama European Green Deal, si traduce come potenziale grossa fregatura ai danni di quasi tutti i paesi dell’Unione Europea. Quasi, perché ad uscirne premiato sarebbe praticamente solo uno di loro: la Germania. Questa settimana, la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha presentato con enfasi il suo piano di risposta all’Inflation Reduction Act (IRA) dell’amministrazione Biden. Esso poggia su due pilastri: la creazione di un fondo sovrano per dotarsi di nuovi strumenti finanziari con cui investire nella transizione ecologica; allentamento della disciplina sugli aiuti di stato.

A caldo, ha ottenuto risposta negativa da due stati membri, seppure per ragioni opposte. Il premier svedese, Ulf Kristersson, ha spiegato che i capitali vanno attirati puntando sul merito nel lungo periodo e non sugli aiuti di stato. Il ministro dell’Economia italiano, Giancarlo Giorgetti, ha da un lato accolto positivamente la svolta “europea” sul futuro dell’industria, dall’altro ha paventato il rischio di creare discriminazioni ai danni dei paesi con minori margini di manovra fiscali.

Anche il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, ha espresso perplessità e ricalcato nella sostanza le critiche di Giorgetti. Qual è il punto? Mesi fa, il governo americano ha varato un piano di aiuti di stato per 380 miliardi di dollari per finanziare la transizione ecologica. Esso prevede di attirare le imprese con incentivi potenti offerti a favore di chi produce negli Stati Uniti e dei consumatori. L’Unione Europea è andata su tutte le furie. Essendo sprovvista di risorse sufficienti e di una disciplina flessibile sugli aiuti di stato, teme di perdere pezzi di industria a favore degli States. In allarme vi è particolarmente la Germania per la sua industria dell’auto.

Fregatura tedesca con il Green Deal

Ebbene, il Green Deal prospettato da von der Leyen va nella direzione giusta quando concepisce la sfida della transizione ecologica in una dimensione europea e non solo nazionale.

A tale riguardo, però, Bonomi rileva che bisognerebbe concentrarsi su Industria 5.0 (intelligenza artificiale, microchip, semiconduttori, ecc.) e non solo sulla svolta ecologica. Ma il vero cavallo di Troia del piano consisterebbe nella possibilità prospettata per i governi nazionali di offrire sostegno alle proprie imprese ricorrendo agli aiuti di stato. Questi sono stati resi possibili con la pandemia per ragioni sanitarie e di sicurezza nazionale. Con il Green Deal, l’allentamento delle regole diverrebbe definitivo.

Potrebbe apparire un affare per chi come l’Italia ha la necessità spesso di salvare questa o quella impresa. Si pensi ad ITA-Alitalia o all’ex Ilva. Il fatto è che a poter approfittare della svolta sarebbe essenzialmente la Germania. E lo dimostrano i dati. Nel triennio 2020-2022, l’Unione Europea ha autorizzato aiuti di stato per 540,2 miliardi di euro. Di questi, il 49,33% in Germania, il 29,92% in Francia e solo il 4,73% in Italia. Cifre che si scontrano con le rispettive dimensioni economiche: il PIL tedesco vale il 25% di quello dell’intera Unione, il PIL francese il 17% e il PIL italiano il 12%.

Come mai questo enorme squilibrio? Semplicemente perché a poter erogare aiuti di stato sono quei paesi che hanno la possibilità di spendere, ovvero con bilanci solidi e margini di manovra sui conti pubblici. E lo abbiamo visto, in particolare, con la crisi dell’energia. La Germania non ha avuto bisogno di aspettare che Bruxelles si muovesse. Ha stanziato 200 miliardi di euro contro il caro bollette, una cifra che paesi come l’Italia si sognano. Con la conseguenza che chi meglio sta già, meglio uscirà dalla crisi.

Con aiuti di stato mercato unico a pezzi

L’Italia guida il fronte di chi vorrebbe ammorbidire le regole sugli aiuti di stato, ma al contempo puntando su un nuovo fondo europeo, cioè sull’indebitamento comune.

Proposta indigesta alla Svezia, che da presidente di turno nel semestre attuale farà di tutto per evitarne anche solo la discussione. Per quanto assurde spesso sono parse le limitazioni imposte dalla Commissione sui salvataggi industriali o anche solo in merito ad interventi a favore del mercato del lavoro, la logica sottostante è stata ineccepibile: il mercato unico si regge su regole condivise e non sull’alterazione della concorrenza a causa dei sostegni dei governi a questa o quella impresa, a questo o quel settore. Tanto che il vice-presidente della Commissione, Valdis Dombrovskis, ha tenuto a rassicurare l’Italia circa l’ammorbidimento “mirato” delle regole.

Il piano von der Leyen rischia di mandare al macero decenni di mercato unico, nonché di accentuare le differenze economiche tra Nord e Sud Europa. Il Green Deal nasconde l’insidia tedesca di rimuovere un caposaldo della politica comunitaria per difendere l’industria in Germania. Una scelta poco lungimirante, perché Berlino si ritroverebbe a vincere ai danni di tutti i partner dell’area, finendo per smantellare quella Unione Europea che ha così tanto contribuito a rilanciarne l’economia dopo la caduta del Muro. Sugli aiuti di stato si gioca una partita pericolosissima. L’ago della bilancia lo farà come sempre la Francia. Da un lato essa è attratta dall’idea di avere mani più libere a sostegno degli interessi nazionali. Tuttavia, dall’altro è intimorita dal rischio di essere divorata industrialmente dalla vicina Germania.

[email protected]