Ieri, abbiamo appreso dalla Banca d’Italia che il nostro debito pubblico a dicembre si è attestato a 2.169,9 miliardi di euro, in rialzo di 33,8 miliardi rispetto all’anno precedente. Tenendo conto dei dati sulla crescita nominale, lo scorso anno dovremmo avere registrato un rapporto tra debito e pil del 133%, in crescita dello 0,6% dal 2014. La dinamica del debito pubblico italiano è preoccupante, come vi dimostreremo attraverso alcune cifre relative all’ultimo decennio. Tra il 2006 e il 2015, il suo stock è cresciuto di 588 miliardi di euro, pari al 37,2%.

Si tratta di un ritmo doppio rispetto al decennio precedente (1995-2005), quando il debito salì di 300 miliardi, pari a meno del 25% del suo valore iniziale del periodo di riferimento.

Interessi debito un fardello per Italia

Per capire le ragioni di questa accelerazione, si pensi a un solo dato: nell’ultimo decennio, la spesa per interessi è stata di 763 miliardi, superiore di 175 miliardi all’aumento del debito stesso. In sostanza, se non avessimo pagato gli interessi sul debito accumulato, avremmo registrato un avanzo totale di 175 miliardi, che avrebbe potuto essere impiegato per abbattere lo stock dell’indebitamento o per aumentare la spesa pubblica, magari a sostegno degli investimenti, o ancora per tagliare le tasse. Avremmo anche potuto fare tutte e 3 le cose. Dunque, il fardello che ci portiamo dietro più che annulla gli sforzi attuati per tenere a bada i conti pubblici. In altri termini, l’Italia non starebbe sovra-spendendo, bensì risulta gravata da interessi ingenti, frutto di una gestione del tutto non virtuosa del bilancio statale nei decenni precedenti, in particolare, negli anni Ottanta.    

Bassa crescita innalza il debito/pil

Ma la sola spesa per interessi non spiega l’impennata del rapporto debito/pil negli ultimi anni. Ad avere provocato un innalzamento di tale ratio è stata la bassissima crescita nominale del pil, data dalla somma tra crescita reale e inflazione cumulate.

Nel decennio 2006-2015, il pil è sceso in termini reali del 5,1%, mentre l’inflazione è stata complessivamente dell’11,5%. Ciò significa che la crescita del pil nominale è stata di circa il 5,5%, quando lo stock del debito, dicevamo, è cresciuto nel frattempo di oltre il 37%. Da qui, l’esplosione del rapporto al 133% attuale. Tanto per fare un confronto con il decennio precedente, allora il pil reale crebbe del 18%, mentre quello nominale (inclusivo dell’inflazione) di ben il 42,5%. Ora, tenendo costante l’inflazione registratasi nell’ultimo decennio, ma sommandovi una crescita reale del pil della medesima percentuale del decennio precedente, otterremmo che il rapporto debito/pil sarebbe oggi inferiore al 110%, sostanzialmente quasi stabile rispetto ai livelli del 2006.

Risanamento conti pubblici fermatosi al 2012

Ma c’è poco spazio per le scuse: nel 2012, l’Italia ha pagato per il suo debito 89 miliardi, mentre nel 2015, grazie solamente alla politica di forte accomodamento monetario adottata dalla BCE, il costo è crollato a 70 miliardi, ovvero al 4,2% del pil, in calo di 5 miliardi dal 2014 e -7 miliardi rispetto alla media del decennio. Tuttavia, questa fase brillante sui mercati finanziari non è stata sfruttata dal governo per irrobustire i conti pubblici, visto che la discesa della spesa per interessi assorbe per intero il piccolo miglioramento nel rapporto deficit/pil, sceso presumibilmente al 2,6% dal 3% dell’anno precedente. Nel 2013, ad esempio, a fronte di una spesa per interessi dello 0,4% di pil in meno, il deficit è sceso solamente dello 0,1% al 2,9%, sostanzialmente “sprecato” per l’assenza di miglioramento sul fronte dell’avanzo primario. Peggio è accaduto nel 2014, quando a fronte di un risparmio di 7 miliardi (0,4% del pil), il deficit è persino salito lievemente al 3%. Dal 2012 ad oggi, quindi, il costo del debito si è ridotto cumulativamente di 17 miliardi, pari a oltre l’1% del pil, mentre il deficit è diminuito solo dello 0,4%. Ciò evidenzia un peggioramento del saldo primario, che non è esattamente un buon biglietto da visita per richiedere maggiore flessibilità a chicchessia.