Immancabile a ogni crisi delle casse statali l’appuntamento con la lotta all’evasione fiscale. Se dalle colonne del Corriere della Sera, Milena Gabanelli ci spiega quanto ci “ruberebbero” ogni anno coloro che non pagano le tasse, in diretta TV e a reti unificate, l’altro ieri il premier Giuseppe Conte ha rispolverato il tormentone storico della sinistra: “pagare tutti, pagare meno”. Davvero? Lo chiediamo, perché negli anni passati è accaduto che abbiamo pagato tutti di più, ma le tasse non sono state tagliate.

Anzi. Nell’ultimo decennio, la spesa pubblica al netto degli interessi sul debito è cresciuta di 72,5 miliardi, circa il 10%. Nello stesso periodo, il gettito fiscale (imposte dirette e indirette) ha registrato una crescita di 68,3 miliardi, +16,9%.

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Già da questi numeri emerge che l’aumento della spesa ha superato in valore sia assoluto che percentuale quello del gettito, a conferma che “pagare tutti per pagare meno” sia uno slogan vuoto, anzi una truffa per convincere i contribuenti che il male italiano siano gli evasori, non le tasse alte. Se aggiungiamo al gettito tributario quello contributivo, il dato diventa ancora più lampante. Nel decennio 2010-2019, la massa di contributi versati all’INPS/INPDAP (i due istituti sono integrati dal 2012) è salita di ben circa 66 miliardi, arrivando ai 236 dello scorso anno e segnando un rialzo del 38,7%.

In totale, quindi, il gettito di tasse e contributi è passato dai 573,3 miliardi del 2010 ai 707,6 miliardi, segnando una crescita di 134,3 miliardi, pari al +23,4%. Si consideri che nello stesso frangente il pil nominale italiano si è espanso di appena l’11%, cioè di meno della metà di quanto sia cresciuto il gettito. A questo punto, vale la pena capire che fine abbiano fatto questi soldi in più che lo stato riscuote di anno in anno, cioè cosa sono andati a finanziare.

Dai bilanci dello stato, si evince che la scuola ha assorbito solamente 5,4 miliardi di euro in più di risorse, meno del 10% in 10 anni e, soprattutto, sotto il tasso di crescita nominale del pil.

Spesa sociale non ha tenuto il passo delle tasse

La sanità, oggetto delle attenzioni di tutti in questi drammatici mesi di lotta contro il Coronavirus, è risultata destinataria di 3 miliardi in più, pari a una crescita del 2,6%, meno di un quarto di quella del pil. Per la difesa, le risorse stanziate sono persino diminuite di 3 miliardi, scendendo ai 21,4 miliardi dello scorso anno. Invece, boom per la spesa pensionistica: +42,65 miliardi, +22,4%, il doppio del pil. Sommando tutti e tre i principali comparti di spesa per lo stato sociale (scuola, pensioni e sanità), si ottiene un aumento di spesa di 51 miliardi (+14,1%), che incide per il 70% dell’intero aumento della spesa pubblica nel periodo. Le sole voci di scuola e sanità, però, hanno inciso per appena l’11,6%.

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E, soprattutto, il gettito totale è cresciuto esattamente del doppio rispetto alla spesa pubblica, a maggior ragione di quella inclusiva degli interessi (+66,3 miliardi). Se rapportiamo la spesa sociale di cui sopra all’aumento della pressione fiscale, otteniamo un misero 38%, come dire che su 100 euro di tasse e contributi in più versati, appena 38 sono andati a finire per erogare servizi legati al “core” del welfare. Il resto? Non certo per potenziare gli investimenti pubblici, che nel decennio considerato risultano essere stati tagliati in valore assoluto di una decina di miliardi. Né per risanare i conti pubblici, con il deficit in discesa sotto il 3% perlopiù grazie alla minore spesa per interessi.

Emergono da questi numeri i mali storici di un’Italia, che nemmeno nei momenti di crisi più acuta riesce a gestire oculatamente le risorse, né a investire sul proprio futuro.

Le tasse riscosse lievitano di anno in anno, senza che nel frattempo si sia data una regolata a quella porzione della spesa pubblica, che oltre ad essere del tutto improduttiva, finisce per bloccare la crescita dell’economia, alimentando l’ipertrofia della burocrazia italiana e l’assistenzialismo, entrambi fatali per l’occupazione e gli investimenti.

Non è l’evasione fiscale il problema

L’evasione fiscale non può mai trovare giustificazione, ma va analizzata senza isterismi. I contribuenti italiani vengono costantemente stressati dallo stato e di anno in anno non vedono alcun beneficio concreto dei sacrifici compiuti. Al contrario, i servizi essenziali vengono tagliati, ridotti spesso all’osso, allo stretto indispensabile, per non dire che l’edilizia scolastica versi in condizioni fatiscenti e metta in pericolo quotidianamente milioni di scolari e lavoratori. Le infrastrutture collassano in ampie aree del Paese e l’assistenza alle fasce più bisognose non si mostra all’altezza di una nazione del G7. Sulla sanità, è stato detto abbastanza in questi mesi.

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In definitiva, abbiamo già la prova provata che l’aumento del gettito fiscale non solo non coincide con un miglioramento dei servizi offerti e meno che mai con i risparmi dello stato, ma anzi tende a perpetuare i comportamenti più lassisti nella sfera pubblica, generando l’idea tra politici e dirigenti statali che non vi siano limiti alle loro azioni, che tutto sia loro dovuto in virtù di un potere impositivo di derivazione legislativa. Ben quaranta anni fa, di questi mesi si affacciava sulla scena politica mondiale un Ronald Reagan al grido di “affamare la bestia”, riferendosi alla necessità di privare lo stato di risorse extra da spendere per annaffiare sé stesso. L’Italia ad oggi non ha mai seguito quella lezione, perché una parte consistente dei cittadini-elettori vive grazie al Leviatano, ossia alle scartoffie, ai lacci e laccioli della Pubblica Amministrazione, ai timbri sulle carte, insomma a tutto quello che da decenni ci diciamo serve ridurre, ma che alla prova dei fatti dimostra di sopravvivere a governi e buone intenzioni.

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