Si mostrano in lieve ripresa le quotazioni del petrolio nella mattinata di oggi, dopo avere chiuso il venerdì scorso in calo del 2% sui dati del lavoro negli USA ad ottobre, migliori delle attese, che hanno avvicinato realmente il rialzo dei tassi da parte della Fed. Al momento, il prezzo del Wti americano sale di 28 centesimi a 44,57 dollari al barile, mentre quello del Brent avanza di 17 centesimi a 47,59 dollari. A sostenere in queste ore i prezzi ci sono i dati dell’import-export della Cina ad ottobre, la cui lettura dovrebbe essere abbastanza negativa, ma che evidentemente è stata interpretata diversamente dagli investitori.

Le importazioni di greggio sono diminuite del 5,7% rispetto a settembre, ma sono risultate in crescita del 9,4% su base annua. Quelle complessive sono diminuite del 6,9% nei 12 mesi, dopo  il -3,7% di settembre, mentre le esportazioni sono crollate del 18, 8% (-20,4% a settembre).

Economia cinese rallenta

Perché questi dati sono stati interpretati, tutto sommato, positivamente per il mercato del greggio? Perché nonostante la Cina stia assistendo chiaramente a una fase di deciso rallentamento della sua economia, continua a mostrarsi intenzionata a non tagliare rispetto al 2014 le sue importazioni di petrolio, accumulandolo tra le riserve strategiche, approfittando dei bassi prezzi. Questo discorso è vero fino a un certo punto. Anzitutto, i dati di cui sopra segnalano che la seconda economia del pianeta è in affanno e rappresentando il 14% del pil mondiale e l’11% dei consumi di greggio, la notizia è tutt’altro che rassicurante per le commodities. Secondariamente, aumenta l’attività di raffinazione in Cina, ma ciò inizia ad impattare sulle importazioni stesse di prodotti raffinati, in calo del 25% su base mensile e dell’11% rispetto a un anno prima.

Produzione petrolio USA appare in calo

A sostegno dei prezzi c’è anche il calo dei pozzi estrattivi attivi negli USA di 6 unità a 572 al termine della settimana scorsa, stando a Bagher Hughes, il decimo consecutivo, a dimostrazione che i produttori americani starebbero tagliando l’offerta, concentrandosi sui siti più redditizi.

Le buone notizie, se così possono essere intese, si fermano qui. Il principe saudita Abdul Aziz bin Salman, nel comunicare che quest’anno sarebbero stati tagliati investimenti nell’industria energetica mondiale per 200 miliardi di dollari, pari a 5 milioni di barili al giorno, ha affermato di prevedere anche per l’anno prossimo un calo degli investimenti tra il 3% e l’8%. Sarebbe la prima volta in 30 anni che ciò accade per 2 anni consecutivi.    

Regno Saudita non taglia offerta

Nonostante ciò, l’Arabia Saudita, spiega, non è intenzionata a tagliare la sua offerta per aumentare le quotazioni, intravedendo una loro risalita dopo il 2016, anche se gli sforzi dei paesi consumatori per sostituire il greggio con fonti alternative, continua, potrebbero impattare negativamente. In ogni caso, Riad stima la domanda in crescita dell’1,5% a 94 milioni di barili al giorno per l’anno prossimo e grazie alla crescita della classe media nel mondo, il pattern dovrebbe mostrarsi positivo anche nel medio-lungo termine. E l’ad di Aramco, la compagnia petrolifera statale saudita, Khalid al-Falih, conferma le parole del principe, sostenendo che non sarebbero in corso colloqui per valutare un taglio dell’offerta e che per vedere le quotazioni intorno a 70-80 dollari al barile dovremmo attendere altri 1-2 anni.

Super-dollaro non aiuterà materie prime

In conclusione, l’economia globale rallenta e la Cina, che in quest’ultimo anno ha pavimentato i prezzi con aumenti delle importazioni di greggio, potrebbe adesso attenuare questo suo ruolo di stabilizzatore del mercato, mentre la produzione mondiale viaggia a pieno ritmo, tanto che ad ottobre i sauditi, nel tentativo di conservare la loro quota di mercato, hanno estratto dai pozzi ben 10,38 milioni di barili al giorno in media, il livello più alto almeno dal 1983.

Infine, la prospettiva di un rialzo dei tassi USA non giova alle materie prime, che essendo acquistati in dollari risentono negativamente del conseguente rafforzamento del biglietto verde, in quanto diventano più costosi per gli acquirenti non americani.