I prezzi delle materie prime sono scesi ai minimi degli ultimi 12 anni, ci segnala il Bloomberg Commodity Index, che si attesta adesso a 192,80 punti, quando nell’aprile del 2010 toccavo il record dell’ultimo quinquennio a 352 punti. Le stime della Banca Mondiale non sono confortanti: rispetto al 2014, i prezzi delle commodities crolleranno quest’anno in media del 39%. Il ferro, ad esempio, dovrebbe cedere oltre il 40% a 55 dollari per tonnellata. Sull’oro, Goldman Sachs intravede una possibile discesa a 1.000 dollari l’oncia.

Il metallo tratta al momento a 1.103 dollari, il 7% in meno dall’inizio dell’anno, oltre il 15% in meno su base annua. Sono pessime notizie per l’Australia, ricca di oro, ferro e carbone, che basa i due terzi delle sue esportazioni proprio sulla vendita delle commodities. E un altro rischio si aggiunge per l’economia dello sterminato paese: il crollo della Borsa di Shanghai.   APPROFONDISCI – Il crollo della Borsa di Shanghai mette a rischio la crescita in Cina e non solo  

Commodities e Cina due croci e delizie per Australia

L’Australia esporta oltre un terzo delle sue merci verso la Cina, la cui economia sta rallentando negli ultimi tempi e cresce al ritmo più basso dal 1990. Dal 12 giugno all’8 luglio scorso, la Borsa di Shanghai è crollata del 32%, mettendo in fumo circa 3.500 miliardi di capitalizzazione. Solo a seguito dell’intervento delle autorità finanziarie di Pechino, le azioni si sono riprese del 15%, ma di fatto solo perché la mano pubblica ha acquisto interi pacchetti delle società più capitalizzate, divenendo tra i primi soci. Il combinato tra crollo dei prezzi delle commodities e rallentamento della crescita in Cina sta mettendo in allarme il governo di Cambera, guidato da Tony Abbott. Finora, la Reserve Bank of Australia ha cercato di rianimare la crescita e di contrastare gli effetti di queste crisi tagliando i tassi due volte quest’anno e portandoli al minimo record del 2%.

A giugno, l’inflazione si è attestata all’1,5% annuo e i prezzi “core” sono cresciuti dello 0,6%. Data la debolezza dei dati, il governatore Glenn Stevens ha avvertito che ulteriori tagli dei tassi sono sul tavolo, anche se non seguiranno automaticamente gli eventuali dati negativi dell’economia. L’obiettivo del governatore è chiaro: svalutare il dollaro australiano, ottenendo il doppio effetto di stimolare le esportazioni e di bilanciare il crollo dei prezzi delle materie prime, che sono denominati in dollari americani. Al momento, il cambio tra le due valute si attesta a 73,83 centesimi dai 94 di un anno fa. In sostanza, il dollaro australiano si è deprezzato del 21% contro il biglietto verde, di quasi il 10% dall’inizio dell’anno, ma resta il fatto che in aprile la bilancia commerciale segnava un disavanzo di 4,14 miliardi di dollari USA.   APPROFONDISCI – L’allarme di SocGen: vendete bond e azioni, comprate commodities e tenete più cash  

Debito Australia molto basso

Qualche giorno fa, il Telegraph avvertiva che l’Australia sarebbe una grande Grecia, non in grado di sostenere il peso ingente del suo debito, dopo la fine del boom delle materie prime. Un’affermazione spropositata, a ben vedere, dato che l’economia australiana si mostra solidissima. Trattasi di uno dei pochi stati a vantare la tripla A sui titoli del suo debito pubblico, che al netto ammonta appena a 226,4  miliardi di dollari USA, al 12,5% del pil e al lordo al 25%. Vero è che il debito estero del paese ammonta a 955 miliardi di dollari e che potrebbe allargarsi con la crisi delle esportazioni, ma resta il fatto che l’economia è cresciuta del 240% negli ultimi 20 anni e che nel frattempo il debito pubblico netto sul pil si è ridotto di un terzo, mentre la popolazione è quasi raddoppiata a poco meno di 24 milioni di abitanti.

Nulla a che vedere con la Grecia, la cui crescita non è stata alimentata da un aumento della produttività, ma da un benessere creato artificiosamente dallo stato a debito. Quest’ultimo si attesta intorno al 170% del pil per Atene e l’economia ellenica si è contratta di oltre un quarto dal 2007 ad oggi. Per concludere, il pil pro-capite dell’Australia era di oltre 49 mila dollari USA nel 2013, tra i più alti al mondo. Certo, la crescita potrà anche rallentare, ma si consideri che il deprezzamento della valuta locale ha già parzialmente compensato il tracollo dei prezzi delle materie prime. Stevens ha evidenziato ieri che il taglio dei tassi non si è tradotto negli ultimi mesi in una corsa al debito da parte delle famiglie, bensì in una tendenza a ripagare più velocemente i debiti precedentemente accesi. Anche questa appare una caratteristica positiva del continente australe.   APPROFONDISCI – Aprire un’attività in Australia: le possibilità di business