Un occhio a Francoforte e un altro a Bruxelles. Domani, la Banca Centrale Europea terrà l’ultimo board dell’anno e quasi certamente comunicherà che non alzerà più i tassi di interesse, grazie alla discesa dell’inflazione nell’Eurozona. Nelle stesse ore, inizia la due giorni per il Consiglio europeo, l’organo che riunisce i capi di stato e di governo. Sarà chiamato a dirimere le controversie tra stati comunitari circa la riforma del Patto di stabilità. Allo stato attuale, le posizioni restano distanti e senza un accordo il 2024 vedrà tornare le vecchie regole di bilancio in vigore fino alla pandemia.

Il non detto è che questa battaglia riguarda essenzialmente gli aiuti di stato.

Fine dell’energia a basso costo

L’ordine mondiale scaturito dal collasso dell’Unione Sovietica e dei suoi stati-satellite vacilla. La Russia ha invaso l’Ucraina nel tentativo di salvare un suo “spazio vitale” e la Cina sta cercando di costruire un sistema di alleanze alternativo all’Occidente, arruolando persino storici amici degli Stati Uniti come l’Arabia Saudita. Cosa c’entra questo con il Patto di stabilità? Finora la Germania e la Francia si erano assicurate la competitività della rispettiva industria puntando sul contenimento dei costi energetici.

Le imprese tedesche hanno prodotto per decenni a basso costo grazie al gas russo, quelle francesi grazie all’energia nucleare. Ma il primo non è più disponibile, tant’è che la Germania è andata in recessione e ha registrato un boom dell’inflazione. E per fare funzionare le centrali nucleari serve l’uranio. Gli sconvolgimenti nell’Africa sub-sahariana, tra cui il recente golpe nel Niger, non garantiscono più a Parigi la materia prima a basso costo. Ergo, entrambi i paesi hanno bisogno di finanziare la transizione energetica a colpi di aiuti di stato per salvaguardare i livelli di produzione.

Per gli aiuti di stato serve flessibilità fiscale

Già con la sospensione delle regole europee in materia, la Germania ha vinto a mani basse la sfida contro i partner europei, seguita a lunga distanza dalla Francia.

Briciole per paesi come l’Italia, che non disponendo di margini di manovra fiscali, non possono stanziare sostegni a favore delle imprese domestiche o per attirare investimenti stranieri. Ed arriviamo al Patto di stabilità. L’Italia chiede da sempre “flessibilità”, parola magica che, tradotta all’atto pratico, significa invocare la possibilità di ricorrere ad un maggiore indebitamento. La Germania dice “nein”. E questo anche dopo che si è scoperto avere truccato i suoi conti pubblici per 869 miliardi di euro.

Transizione energetica e Patto di stabilità legati

La Francia cerca di fare da mediatrice, ma ha a cuore il suo esclusivo interesse nazionale. Com’è ovvio che sia. Parigi non dispone degli stessi margini di manovra di Berlino sugli aiuti di stato. Teme di restare indietro sulla transizione energetica, cioè di assistere alla perdita di competitività delle proprie imprese a favore delle concorrenti tedesche. Negando agli altri flessibilità fiscale, il governo Scholz parte di gran lunga avvantaggiato. Può battere tutte le altre grandi economie europee a colpi di aiuti di stato per decine di miliardi di euro. E’ su questi aspetti che i partiti della sua rissosa maggioranza “semaforo” stanno litigando in queste settimane.

I Verdi lo dicono esplicitamente: l’austerità rischia di far perdere alla Germania la sfida sulla transizione energetica. I liberali, in forte crisi di consenso, avevano cercato di avere la botte piena e la moglie ubriaca truccando i conti con il loro ministro delle Finanze e leader di partito, Christian Lindner. Ora che la Corte Costituzionale gli ha letto le carte, la maggioranza cerca un punto di equilibrio, scaricando all’esterno le tensioni. Sul Patto di stabilità Lindner pretende rigore per i paesi con un debito pubblico elevato, il quale dovrà essere tagliato dell’1% all’anno rispetto al PIL contro lo 0,5% per i paesi meno indebitati.

Aiuti di stato per alterare la concorrenza

Queste regole di bilancio non sono solo frutto di una salda convinzione tedesca sulla necessità di mantenere i conti ordinati. C’è l’impellenza di garantire un futuro all’industria nazionale, alterando le regole della concorrenza. Se le imprese italiane e finanche francesi accusassero nei prossimi anni un alto costo dell’energia e quelle tedesche no, gli effetti del venir meno del gas russo sarebbero stati neutralizzati. Berlino potrebbe calmierare i prezzi alla produzione a colpi di aiuti di stato e attirare nuovi investimenti dall’estero, come di recente stanziando 10 miliardi a favore di Intel per la costruzione di due stabilimenti per i chip.

Se l’Unione Europea fosse un soggetto politico degno di nota, gestirebbe la transizione energetica con un piano sovranazionale. Avrebbe modo di finanziarla senza smantellare uno dei capisaldi del mercato unico, cioè regole uguali in tutti gli stati membri. Ma a Bruxelles comandano i governi più forti, cioè Germania in primis. E i tedeschi si guardano bene dal consentire che gli investimenti siano distribuiti equamente nel continente e che i prezzi alla produzione tendenzialmente siano allineati. Il Green Deal della Commissione von der Leyen serve come foglia di fico per vincere la battaglia sul futuro dell’industria ai danni dei partner europei.

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