Sono terminati i 10 giorni di festeggiamenti nazionali per celebrare i 40 anni della Rivoluzione Iraniana. Era il febbraio del 1979, quando lo Shah di Persia veniva cacciato da un colpo di stato orchestrato dall’ayatollah Khomeini, che dall’esilio in Francia faceva ritorno in patria per liberare l’Iran dal monarca filo-americano, promettendo al popolo uguaglianza e progresso. A distanza di 4 decenni, non possiamo certo sostenere che i propositi rivoluzionari siano stati centrati. A titolo di esempio, alla fine degli anni Settanta, il pil pro-capite in Iran era di 2.400 dollari e in Turchia di poco più di 2.000 dollari.

Oggi, il primo viaggia sui 5.500 dollari contro i circa 11.000 dollari del secondo.

La Repubblica Islamica sta vivendo una fase economica abbastanza difficile dopo che il presidente americano Donald Trump ha annunciato di ritirarsi dall’accordo sul nucleare, ripristinando le sanzioni sospese a inizio 2016. Per questo, le autorità iraniane hanno ripreso con più vigore di prima a intonare “Morte all’America” e qualche giorno fa, la massima istituzione religiosa del paese, l’ayatollah Khameini, ha sentito il bisogno di chiarirne il significato: non un’invocazione contro il popolo americano, bensì contro il suo presidente.

Iran, cambio al mercato nero implode su Trump e Teheran rischia la fine del Venezuela

I risultati della Rivoluzione di Khomeini

Ad ogni modo, il 70% della popolazione iraniana oggi non ha vissuto la rivoluzione del ’79, essendo nata dopo. Il presidente Hassan Rouhani, nel corso di una manifestazione celebrativa, ha evidenziato che l’ayatollah avrebbe espresso preoccupazione non già per le conseguenze economiche dettate dall’embargo USA, quanto per le divisioni interne alla repubblica. In effetti, se nel 2009 il “Movimento Verde” fece tremare il regime con imponenti proteste per le strade delle principali città, ma fu brutalmente represso nel sangue, un anno fa tornarono a tenersi nuove manifestazioni di ira per le difficili condizioni di vita, pur non così partecipate come quelle di un decennio fa.

L’Iran presenta tutte le caratteristiche di un’economia in affanno e sulla quale incombe il rischio di una spirale mortale. Da settimane si registrano lunghe file per l’acquisto della carne, che ricordano quelle del Venezuela di questi anni. Mesi fa, nel paese fu lanciato l’allarme pannolini. In vendita ve ne erano pochi e i prezzi erano schizzati, colpendo i già magri bilanci familiari. Le cause della carenza di beni sarebbero del tutto simili a quelle che hanno provocato il disastro di Caracas: il cambio. Come il paese andino, la Repubblica Islamica è ricca di petrolio. Tuttavia, se prima della rivoluzione ne estraeva 6 milioni di barili al giorno, adesso non va oltre i 2,7 milioni, di cui 1-1,5 milioni esportati. Anche prima che fossero comminate a Teheran le sanzioni dall’amministrazione Obama nel 2012, la produzione giornaliera non arrivava a toccare i 4 milioni di barili, a causa dei sotto-investimenti, a loro volta legati sia dalla cattiva gestione della risorsa, sia degli scarsi afflussi di capitali esteri.

Il calo della produzione e la conseguente diminuzione della valuta estera pesante in ingresso spiegano solo parzialmente la crisi dell’offerta. Così come il Venezuela, l’Iran tiene il cambio del rial contro il dollaro fissato secondo una parità decisa dalle autorità. Tuttavia, se fino alla fine del 2017 questa risultava non troppo distante dal tasso di cambio reale, vigente al mercato nero, mostrandosi del 20-30% più forte, sin dallo scorso anno le distanze sono letteralmente esplose. A fronte di un cambio ufficiale di 42.000 rial per un dollaro, al mercato nero si è arrivati nell’autunno scorso fino a 190.000 e attualmente la valuta americana la si compra a 122.500 rial. Questo significa due cose: la prima, che gli iraniani sono disposti a pagare i dollari a premio rispetto il cambio ufficiale del 192%.

La seconda, che al mercato nero i dollari valgono intorno al 170% in più rispetto a un anno fa. E quest’ultima considerazione ci porta ad affermare che questo sarebbe il tasso reale di inflazione nella Repubblica Islamica, sebbene le statistiche ufficiali parlino di una crescita tendenziale dei prezzi a novembre (ultimo dato disponibile) del 40%.

E in Iran scoppia la crisi dei pannolini

Iran in stato di crisi

Alta inflazione e alta disoccupazione, con quest’ultimo tasso a superare il 12% e a schizzare al 30% tra i giovani, con punte del 60% in alcune province. Non a caso, intorno ai 150.000 ragazzi ogni anno lasciano l’Iran, in cerca di un paese migliore in cui prosperare. Non era esattamente il sogno promesso dalla rivoluzione di Khomeini. E i problemi potrebbero persino aumentare repentinamente, se la caccia ai dollari in voga negli ultimi mesi dovesse spingere sempre più imprese a rivolgersi ai mercati di sbocco stranieri per accaparrarsi valuta pesante, di fatto accentuando il calo dell’offerta domestica e innalzando di conseguenza i prezzi. La strada verso l’iperinflazione sarebbe imboccata senza indugi e l’esplosione dello spread tra cambio ufficiale e cambio reale segnala tale preoccupazione.

Lo stesso governo ha iniziato a fiutare i rischi derivanti dalla stagnazione e dal collasso finanziario in corso, presentando per il nuovo anno un bilancio, che secondo la retorica del presidente Rouhani dovrebbe ridurre le disuguaglianze e sostenere la ripresa economica, ma nei fatti si tratta di un budget di appena il 40% rispetto a quello dell’anno precedente, cioè di 47,5 miliardi di dollari contro i circa 110 miliardi. La stessa uguaglianza è diventato un concetto-boomerang per i guardiani della rivoluzione. Le disparità sociali, che pure con la politica dei sussidi cash dell’ex presidente Ahmadinejad si sono ridotte, non solo restano alte (il 40% della popolazione vivrebbe sotto la soglia di povertà), ma risultano accentuate dalla cattiva gestione della spesa e degli investimenti pubblici, con un nucleo di famiglie legate alle istituzioni a beneficiare di credito facile e ad accedere ai grandi affari degli immobili di lusso legati ai progetti degli ambienti religiosi.

Lo sdegno tra la popolazione è diventato così diffuso, che le autorità sciite hanno da poco annunciato che questo business non sarà più portato avanti.

Strano che possa apparire, la crisi non viene nascosta dalla TV di stato, anzi esaltata quale strumento di propaganda contro il governo di Rouhani, che l’ayatollah non vede di buon occhio, accusato di essere moderato e troppo incline a trattare con gli americani per ravvivare l’economia. Le lunghe file per comprare la carne a prezzi sempre più alti vengono documentate quotidianamente per dimostrare come la crisi sia conseguenza della scommessa sbagliata del presidente di aprire all’America. E in assenza di risposte ai bisogni concreti degli iraniani, l’unica eredità visibile della rivoluzione del ’79 resta l’odio per il “Satana” occidentale, il nemico di sempre. Da Jimmy Carter a Donald Trump, a Washington sembra passata un’eternità; a Teheran il tempo si è fermato al sequestro dell’ambasciata a stelle e strisce.

Le proteste in Iran hanno origini economiche e minacciano il potere dell’ayatollah

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