L’Italia ha scoperto l’esistenza del franco CFA e quasi in 60 milioni si sono improvvisati esperti di politica monetaria, spolverando sui social una cultura economica da copia e incolla di post spesso farlocchi o almeno parziali. Nulla di anomalo, se non fosse che il tema sia diventato un momento di tensione diplomatica tra Italia e Francia, con il governo di Parigi ad avere l’altro ieri convocato la nostra ambasciatrice per protestare contro le affermazioni di alcuni esponenti dell’esecutivo, come il vice-premier Luigi Di Maio, che accusano la Francia di impedire lo sviluppo delle economie africane, perpetuando una politica coloniale di sfruttamento attraverso il franco CFA, tacciato di essere concausa delle migrazioni verso l’Europa.

La Francia sfrutta le sue ex colonie africane con la moneta, come accusano Di Battista e Meloni?

Vi abbiamo spiegato che il nesso tra franco post-coloniale e livelli di sviluppo delle 14 economie africane che lo adottano appare complicato da trovare. Trattandosi di un sistema di cambi fissi, la moneta francofona ha consentito a stati finanziariamente deboli e certamente con scarsissima fiducia sui mercati di attirare più capitali di quanti altrimenti ne sarebbero affluiti con monete “sovrane” e di consolidare le relazioni commerciali tra di loro, oltre che con la Francia e le altre grandi economie mondiali, grazie alla stabilità valutaria. Da non sottovalutare la tendenziale bassa inflazione che tale regime ha assicurato generalmente a queste economie, la quale ha contribuito positivamente alla crescita, indipendentemente dai tassi registrati da stato a stato, garantendo la tenuta del potere di acquisto contro possibili fenomeni estremi come l’iperinflazione, flagello non raro tra gli stati più deboli sul piano sia politico che economico. Infine, l’impossibilità di finanziare in misura eccessiva la spesa in deficit avrebbe anche reso più responsabili le singole politiche fiscali.

Il Movimento 5 Stelle avrebbe, insomma, utilizzato un argomento poco centrato e studiato per attaccare la Francia, che pure di responsabilità in Africa ne ha, come dimostra la sciagura dell’attacco militare alla Libia di Gheddafi.

Semmai, il dibattito sul franco CFA si è rivelato l’ennesima conferma che saremmo di fronte alla più grande dissimulazione politica della storia italiana negli ultimi decenni, cioè il PD si è travestito da partito progressista, mentre sfoggia a ogni appuntamento utile una cultura economica incompatibile con la storia che rivendica.

Sinistra storicamente contro i cambi fissi

Il Nazareno si è scatenato contro quelle che ha definito “bufale” grilline sul franco CFA e basterebbe leggere gli articoli della stampa ad esso vicina per capire come l’area culturale che si rifà alla sinistra sia scesa in campo in difesa non solo dell'”amico” Macron, quanto anche del sistema di cambi fissi adottato da una dozzina di ex colonie francesi e di un altro paio di stati con trascorsi coloniali differenti. Perché tutto questo sarebbe incompatibile con la sinistra? Perché storicamente, i progressisti si sono battuti per un sistema di tassi di cambio flessibile.

Quando nel 1944, oltre una quarantina di stati dell’orbita occidentale si riuniva a Bretton Woods, cittadina americana del New Hampshire, per porre le basi dell’ordine finanziario post-bellico, si dibatté animatamente sulle due opzioni riguardo il tipo di tassi di cambio da adottare. Gli economisti di destra, quelli che definiremmo “liberisti”, si schierarono per un sistema di cambi fissi, mentre l’inglese John Maynard Keynes, capofila di quella scuola della sinistra favorevole allo stato interventista in economia a sostegno della domanda aggregata, paradossalmente si schierava per la libera fluttuazione dei cambi sul mercato. Sembrerebbe un controsenso che gli economisti scettici sul ruolo del libero mercato come garante automatico del raggiungimento dell’equilibrio di piena occupazione optassero per esso con riferimento ai tassi di cambio, ma dietro le apparenze si nascose una sostanza assai diversa: Keynes perseguiva l’ambizione di tassi flessibili, così che i singoli governi aderenti al sistema di Bretton Woods avessero la possibilità, all’occorrenza, di effettuare svalutazioni competitive, con ciò sostenendo le esportazioni e, quindi, la domanda.

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I cambi rigidi, al contrario, impediscono proprio tali svalutazioni, visto che i tassi a cui una valuta viene scambiata con le altre sono fissati definitivamente e, al limite, verrebbero rivisti una tantum e in situazioni eccezionali. Per la cronaca, Keynes perse la partita e, infatti, il sistema di cambi concordato fu il cosiddetto “gold exchange standard”, per cui i cambi vennero ancorati al dollaro e a sua volta si stabilì un aggancio tra la valuta americana e l’oro a 35 dollari l’oncia. Il sistema resse fino al 1971, quando l’allora presidente Richard Nixon annunciò che l’America non avrebbe più garantito la convertibilità in oro. Da lì, la lunga marcia verso l’euro, passando per il Sistema Monetario Europeo (SME), caratterizzato da tassi di cambio multilaterali liberi di fluttuare all’interno di una banda di oscillazione prefissata. Non fu una soluzione efficiente, se è vero che l’Italia svalutò 7 volte la lira tra il 1979 e il 1993, con risultati disastrosi per la nostra economia.

Il PD e la sinistra che non è

Tornando al ragionamento iniziale, i cambi fissi sono sostenuti politicamente dalla destra, se ancora ha senso dividere l’arena nelle due aree tradizionali. La destra economica è stata e resta ostile alle svalutazioni competitive, ritenendo che i costi si rivelino alla lunga superiori ai benefici. La sinistra la pensa diversamente e pur riconoscendo che le svalutazioni in sé non siano una soluzione definitiva alla crisi di competitività di un’economia – anche perché se tutti svalutassero, nessuno di fatto trarrebbe alcun beneficio – vede nei cambi fissi un rischio potenzialmente enorme a carico del lavoro, ossia la necessità di raggiungere per altra via l’equilibrio di piena occupazione, cioè attraverso la “svalutazione interna”, vale a dire tagliando i salari per rendere le merci nazionali competitive.

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In altre parole, funziona così: se due economie commerciano tra di loro, quando una esporta di meno, magari a causa di un surriscaldamento dei prezzi che ha reso le sue merci relativamente meno competitive, il suo tasso di cambio si deprezza e ciò nel tempo ripristina l’equilibrio e la piena occupazione. Se i cambi fossero fissi, come avviene all’interno dell’Eurozona dal 1999 e come nel caso del franco CFA, quando un’economia diventa meno competitiva ed esporta meno, l’unico modo per ripristinare l’equilibrio sarà di tagliare i prezzi interni, cosa che implica l’abbassamento dei costi, tra cui i salari. Se così non fosse, l’equilibrio non sarebbe più raggiunto e l’economia si troverebbe in una condizione permanente di sottoccupazione.

Ora, sensibilità politiche e culturali per l’uno o l’altro sistema fanno sì che il dibattito attorno a quale tipo di cambio sarebbe preferibile non abbia mai fine, in quanto ciascuna area politica rivendicherà sempre la bontà delle proprie argomentazioni. Ma possiamo immaginare che il PD abbia qualcosa a che spartire con la sinistra, quando su un tema così importante e identificativo della cultura di un partito si schiera con un sistema valutario, che presuppone l’adozione di una politica fiscale e monetaria restrittive, oltre che di un approccio ai temi del lavoro di stampo conservatore? Agli elettori l’ardua sentenza!

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