Alessandro Di Battista, Giorgia Meloni. Così diversi politicamente, eppure così simili ieri sera, quando in prima serata nei rispettivi due programmi televisivi di cui erano ospiti hanno esibito banconote del franco CFA per protestare contro quella che hanno definito essere l’ipocrita politica neo-coloniale della Francia, perpetuata ai danni delle economie africane. Di cosa si tratta? Il franco CFA è la moneta di 14 stati africani, suddivisi in due blocchi: quello dell’Unione dell’Africa Occidentale (Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Guinea-Bissau, Mali, Niger, Senegal e Togo) e l’altro dell’Unione dell’Africa Centrale (Camerun, Ciad, Congo, Guinea Equatoriale, Gabon e Repubblica dell’Africa Centrale), ciascuno con una propria banca centrale battente moneta.

Il cambio venne ancorato sin dal 1945 al franco francese e dal 1999 all’euro a un tasso di 656.

14 economie africane a rischio se sparisse l’euro

La Banca di Francia garantisce la convertibilità in euro della valuta di queste economie africane, ma in cambio chiede che il 50% delle riserve valutarie di ogni stato venga depositato a Parigi. Fino al 2005, la percentuale era pari al 100%. Oggi come oggi, la somma si aggira sui 20 miliardi di euro. In sostanza, metà delle riserve valutarie dei 14 stati aderenti va depositata alla Banca di Francia, la quale riconosce su tali somme un tasso d’interesse fisso dello 0,75%.

Perché Di Battista e Meloni protestano contro il franco CFA? I due leader sostengono che esso abbia creato le condizioni per un impoverimento delle economie aderenti alle due aree monetarie (e 11 dei 14 stati figurano effettivamente tra le economie meno sviluppate al mondo), le quali a loro volta alimentano la migrazione in mare verso l’Europa. Ora, non vogliamo concentrarci sui numeri del Viminale, secondo cui i flussi sarebbero solo marginalmente in arrivo da questi paesi, volendo porre l’attenzione su contenuti più prettamente economici. Perché il franco CFA dovrebbe danneggiare le economie africane? La risposta immediata sarebbe la seguente: fissando una parità fissa contro l’euro, i 14 stati dipendono dalla politica monetaria della BCE, la quale la conduce sulla base dei fondamentali dell’Eurozona, non delle loro economie.

In pratica, si tratterebbe di una moneta sganciata dagli interessi dei due blocchi africani.

Benefici e svantaggi per le economie africane dal franco CFA

In altre parole, queste economie godrebbero da un lato del beneficio di riuscire a importare merci a costi contenuti, ma dall’altro avrebbero difficoltà ad esportare, avendo un cambio più forte dei rispettivi fondamentali. Questo discorso appare vero solo in parte. Si tenga conto che spesso le esportazioni di questi paesi riguardano essenzialmente materie prime, come il cacao per la Costa d’Avorio. E il tasso di cambio influenza poco i livelli esportati, trattandosi di beni dalla domanda anelastica, in quanto diffusa nel mondo, e dall’offerta carente e perlopiù concentrata in poche aree del pianeta.

Rapper africani in rivolta contro il “colonialismo francese”

D’altra parte, bisogna ammettere che le economie africane che aderiscono al franco CFA qualche buona ragione ce l’hanno per non sganciarsi e tornare alle monete nazionali. Una di queste è certamente la garanzia di prezzi stabili. Venendo meno le ampie oscillazioni dei tassi di cambio e la possibilità di svalutare questi ultimi, l’inflazione si mostra tipicamente più bassa di altre economie emergenti e povere dell’Africa medesima. A titolo di esempio, il Benin registra una crescita annua media dei prezzi del 2,3% dal 2000, il Burkina Faso del 2%, la Costa d’Avorio del 2,4% e nell’ultimo decennio Senegal e Camerun mostrano un tasso medio inferiore al 2%. La bassa inflazione è precondizione per lo sviluppo ordinato dell’economia, mentre quando i prezzi salgono rapidamente, la stessa convivenza all’interno di uno stato diventa meno pacifica e sono soliti scoppiare disordini e violenze.

Detto fuori dai denti, il franco CFA paradossalmente fungerebbe da freno della migrazione di massa nelle aree in cui viene adottato, quanto meno contribuendo alla stabilità interna dei prezzi. E parliamo di economie, che altrimenti sarebbero a rischio persino di fenomeni come l’iperinflazione, che anche negli anni recenti hanno spinto alla fuga milioni di cittadini da paesi come Zimbabwe e il Venezuela, entrambi colpiti dal flagello. Non solo: la bassa inflazione contiene i costi di produzione e, per tale via, sostiene la competitività delle imprese, a (parziale?) compensazione del cambio forte che tende, al contrario, a ridurla.

Di Battista e Meloni hanno ragione o torto?

Dunque, i due leader avrebbero preso una cantonata sulla moneta coloniale? Dipende dal punto di vista. Abbiamo detto che la Banca di Francia pretende il deposito del 50% delle riserve valutarie da parte dei 14 stati. Presso i suoi forzieri, quindi, deterrebbe oggi quasi una ventina di miliardi di euro, in cambio dei quali può garantire la convertibilità in euro dei franchi CFA. Attenzione, perché il denaro non è di proprietà di Parigi, trattandosi solo di un “prestito coattivo”, se così possiamo definirlo. Su di esso, l’istituto paga un tasso d’interesse certamente basso, ma pur sempre positivo. Non è detto che le banche centrali dei due blocchi avrebbero fatto di meglio con una politica del cambio sovrana. Anzitutto, avrebbero dovuto ugualmente detenere assets in valuta straniera e possibilmente in misura superiore a quella attuale, dovendo rassicurare i mercati sulla tenuta dei tassi di cambio.

Tuttavia, vero è che quella liquidità portata a Parigi viene impiegata dalla banca centrale francese per mettere a frutto un interesse superiore a quello offerto agli stati africani. In teoria, basta prestare il denaro in linea con i tassi BCE per lucrare dalla differenza con il tasso passivo. Ora, vero è che negli ultimi anni i tassi sono stati azzerati nell’Eurozona, per cui la Francia sta perdendo sostanzialmente dalla detenzione dei depositi, dovendo sborsare una cifra non compensata da tassi attivi.

In passato, però, non è stato così. Quando la BCE teneva i tassi fino al 4-5% fino al 2008, ad esempio, la banca francese poteva guadagnare sui 4 punti percentuali netti, i quali sui 20 miliardi odierni farebbero qualcosa come 800 milioni di euro all’anno. E si consideri che nel lungo periodo si tornerà a tassi ben superiori a quelli attuali, con la conseguenza che Parigi potrà fare nuovamente cassa dal sistema valutario messo in piedi in 12 sue ex colonie sui 14 stati aderenti.

Ma il vero vantaggio per la Francia non sta in questi spiccioli, quanto nella capacità delle sue imprese, agricole comprese, di esportare verso le 14 economie dei due blocchi africani, giovandosi da un lato delle relazioni storiche consolidate, dall’altro di un cambio favorevole, tanto da poter vantare un saldo netto complessivo stimabile in oltre 3 miliardi all’anno, a fronte di una bilancia commerciale complessiva cronicamente passiva. Viceversa, i produttori locali hanno difficoltà ad esportare verso l’Eurozona, visto il cambio forte, tanto che negli ultimi 20 anni hanno dimezzato dal 50% al 25% la quota verso l’unione monetaria, trovando quali nuovi mercati di sbocco paesi come Cina e India. Ma va da sé che se la critica fosse al cambio sfavorevole a cui queste economie soggiacerebbero, bisognerebbe mettere in conto eventuali contraccolpi potenzialmente negativi anche per le nostre esportazioni verso di esse, visto che senza volerlo i francesi ci starebbero facendo un piccolo favore. Ci ritroveremmo una concorrenza più agguerrita sui mercati agricoli. E a quel punto, avremmo solo un problema in più, non in meno.

Economia africana a una possibile svolta: mercato comune in tutto il Continente

[email protected]