E’ stato uno shock l’annuncio di ieri della Norges Bank, la banca centrale norvegese, che gestisce il fondo sovrano da 1.000 miliardi di dollari. L’istituto ha segnalato che intende uscire dal mercato petrolifero, vendendo le azioni delle compagnie in suo possesso entro la fine dell’anno prossimo. Il fondo detiene circa l’1,5% delle azioni emesse nel mondo, di cui circa 35 miliardi di dollari in società petrolifere, il 6% delle azioni totali possedute. Tra queste, troviamo una partecipazione da 5,5 miliardi in Shell, una da 3 miliardi in Exxon, da 2 in Chevron, BP e Total, da oltre 1 miliardo in Schlumberger e da 1 miliardi nell’italiana Eni.

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L’annuncio ha scioccato i mercati, anche perché il fondo di Oslo è esso stesso alimentato con le entrate derivanti dalla vendita di petrolio. Non si tratta di un caso isolato. Da tempo è nato un movimento pro-ambiente tra istituzioni religiose, fondi pensione e altri tipi di fondi, che in nome dell’ecologia sta disinvestendo dalle società fossili, in modo da contribuire al raggiungimento degli obiettivi fissati dall’Accordo di Parigi, ovvero essenzialmente al taglio delle emissioni inquinanti. In tutto, questi investitori sarebbero in possesso di assets per 5.000 miliardi di dollari. Per quanto i loro piani di disinvestimento dal comparto petrolifero saranno applicati solo gradualmente, segnalano una tendenza abbastanza negativa per l’oro nero in borsa.

Tanto per citare un esempio illustre, l’anno scorso il Rockefeller Family Fund ha annunciato di avere venduto la partecipazione in Exxon e che cederà ogni altro pacchetto azionario detenuto presso società incentrate sulla produzione di energia da fossili. Tuttavia, non è chiaro se il ritiro del fondo norvegese dal comparto azionario petrolifero abbia realmente a che vedere con ragioni ambientaliste, cosa che sarebbe alquanto paradossale per un ente, che vive proprio di petrolio. Sorge il sospetto che dietro alla mossa vi siano le incertezze sul futuro delle quotazioni del greggio, le quali impattano chiaramente sul valore delle compagnie petrolifere.

Il segnale negativo della Norvegia sul petrolio

Se così fosse, Oslo avrebbe appena lanciato un segnale abbastanza “bearish” al mercato energetico e proprio nel momento in cui le quotazioni si sono riportate sopra i 60 dollari al barile per la prima volta da quasi due anni e mezzo, arrivando a guadagnare quasi il 30% in appena tre mesi. Del resto, sarebbe improbabile che un fondo, per quanto fedele al proprio codice etico, esca da un mercato prevedendone il rafforzamento. Altra cosa sarebbe stata se non vi fosse ancora entrato, ma oggi come oggi quasi un azione su 16 in portafoglio la ha proprio in questo comparto.

La notizia non avrà fatto di certo piacere ai sauditi, che entro l’anno prossimo intendono quotare in borsa il 5% di Aramco, la loro compagnia petrolifera statale, stimata da Riad in 2.000 miliardi di dollari in tutto. Con l’IPO, il regno vorrebbe incassare qualcosa come 100 miliardi, ma per raggiungere questo obiettivo, oltre a superare i dubbi degli analisti sul reale valore della compagnia, dovrà sperare di tenere le quotazioni petrolifere il più in alto possibile e di trovare investitori istituzionali disponibili a partecipare all’operazione. E proprio il fondo sovrano norvegese, il più grande al mondo per assets, sarebbe stato un potenziale acquirente, ma con l’annuncio di ieri è venuta meno questa prospettiva, cosa che dovrebbe preoccupare parecchio la monarchia dei Saud, anche perché il passo compiuto dai norvegesi potrebbe essere seguito da altri grandi investitori globali, tesi a riscuotere l’approvazione di quella fetta di clientela ecologista sempre più diffusa e influente, almeno sul piano mediatico. (Leggi anche: E se la Norvegia si comprasse il petrolio saudita?)

Aldilà del caso specifico, dicevamo che l’addio a breve al petrolio da parte di uno dei suoi principali produttori suona l’allarme sul futuro dei prezzi.

Che il fondo abbia voluto avvertire tra le righe sul raggiungimento già da qui a qualche anno del picco di domanda? Se così fosse, saremmo davvero dinnanzi a uno stravolgimento delle prospettive future e i sauditi starebbero vendendo una parte del loro gioiello in una fase non azzeccata. A gioire saranno certamente altri comparti, a partire dalle società produttrici di energie rinnovabili, perché beneficerebbero di almeno parte di quei 35 miliardi in fase di disinvestimento.