La Lega ha fatto la mossa del cavallo, come più di uno la chiama ormai nei palazzi della politica. Quando il presidente Sergio Mattarella chiamava al Quirinale Mario Draghi per conferirgli l’incarico di formare il nuovo governo, non prima di un “cazziatone” pubblico per i partiti, tutti si aspettavano un sostegno convinto da parte di Forza Italia e un “no” senza appello sia di Giorgia Meloni che di Matteo Salvini. Nessuno avrebbe scommesso più di qualche manciata di euro sul fatto che la Lega avrebbe avallato la formazione di un esecutivo tecnico-politico con PD e Movimento 5 Stelle e che avrebbe desistito dal chiedere elezioni anticipate.

Eppure, è successo. L’eminenza del Carroccio, Giancarlo Giorgetti, è riuscito nell’impresa di fare cambiare idea al leader, stavolta aiutato dai governatori del nord, in particolare, da Luca Zaia e Massimiliano Fedriga, oltre che Attilio Fontana. Il pressing è servito a fare capire a Salvini che sarebbe stato negativo per il partito restare all’opposizione di Draghi, in quanto la rappresentanza degli interessi delle categorie produttive, specie al nord, sarebbe venuta meno. E nel corso delle prime consultazioni, pare che lo stesso premier incaricato gli abbia fatto presente che la Lega sia primo partito italiano e che rappresenti quei ceti a cui un governo di unità nazionale in questa fase converrebbe.

Il “sì” di Salvini ha spiazzato il PD, che pensava a una riedizione italiana della “maggioranza Ursula”, quella che nel luglio 2019 si formò a Bruxelles, allorquando la nuova Commissione europea veniva sostenuta dal PD stesso, oltre che da Movimento 5 Stelle e Forza Italia per limitarci ai movimenti nazionali. Lega e Fratelli d’Italia si posero all’opposizione, restando a bocca asciutta nella spartizione delle cariche, malgrado il Carroccio alle elezioni europee avesse preso il 34% dei consensi.

Sondaggi politici oggi 9 febbraio: con Draghi crollo delle sinistre e piace il nuovo Salvini europeista

E proprio in Europa si sta muovendo qualcos’altro in questi giorni.

E’ accaduto che il tedesco Joerg Meuthen, eurodeputato dell’AfD, formazione della destra euro-scettica in Germania, abbia inveito contro Draghi, sostenendo che abbia inondato di liquidità l’Eurozona quando era governatore BCE, definendolo “gran maestro dei debiti”. Per tutta risposta, i colleghi leghisti del gruppo Identità e Nazione hanno chiesto a Meuthen di non polemizzare con il premier incaricato italiano. Marco Zanni ha replicato stizzito che

se qualcuno all’estero critica il prof Draghi per avere difeso l’economia, il lavoro e la pace sociale europea, quindi anche italiana, e non solo gli interessi tedeschi, questa per noi non sarebbe un’accusa, ma un titolo di merito.

Cambiano le posizioni della Lega in Europa

Più pesante la posizione del veneto Gianantonio Da Re, che ha chiesto l’espulsione dell’AfD dal gruppo per le sue presunte simpatie neonaziste. Ad oggi, la Lega nell’Europarlamento siede nel gruppo della destra euro-scettica, quella a cui appartiene anche la francese Marine Le Pen. Ma quanto sta avvenendo a Roma sembra che stia avendo già ripercussioni a Bruxelles. I leghisti stanno riposizionandosi più a favore della Commissione, tant’è che oggi potrebbero votare il Recovery Plan, contrariamente all’astensione nella votazione precedente.

Sarebbe il primo passo per compiere un percorso semplicemente incredibile fino a una settimana fa. Si vocifera che nel PPE, il partito più grande dell’Europarlamento e di centro-destra, sia pronto a sbarazzarsi di Viktor Orban, il premier ungherese dalle posizioni euro-scettiche e divenuto ormai motivo di imbarazzo per i cristiano-democratici tedeschi, in particolare. Tuttavia, avanza l’ipotesi che a subentrargli vi sarebbe proprio Matteo Salvini, che oltretutto possiede una pattuglia di deputati doppia. Al cambio, il PPE ci guadagnerebbe sul piano dei numeri e della geopolitica: avrebbe più deputati e, soprattutto, un grande partito di riferimento in Italia, terzo stato più popoloso dell’Unione Europea.

Per Salvini, la marcia verso il PPE non sarà verosimilmente breve, ma costellata da diversi esami. Il primo consiste proprio nella fiducia che dovrà accordare a Draghi; il secondo, nel cambio dei toni verso l’Europa e il terzo nell’abbandono senza remore dei rapporti con Le Pen, che a Bruxelles è considerata alla stregua della peste nera. Se tutto questo accadesse, l’ingresso nel PPE, pur tra diversi malpancisti, avrebbe una conseguenza dirompente per l’Italia: fine dell’eccezione politica, per cui una coalizione (centro-destra) è percepita ostile dai mercati finanziari e dai commissari.

In sostanza, Salvini-Meloni-Berlusconi potrebbero ambire credibilmente a governare senza più il panico dello spread e della battaglia quotidiana con la Commissione. Non sarà tutto automatico e serviranno prove tangibili della “conversione” sincera alla UE e all’euro. Anni di scontri verbali con la cancelliera Angela Merkel o “l’Europa dei commissari” non si cancellano con qualche mossa astuta. Ad ogni modo, il percorso sembra avviato. E la normalizzazione della politica italiana è qualcosa che tutti dobbiamo augurarci che avvenga. Abbasserebbe il rischio sovrano percepito e farebbe tornare il nostro Paese a pieno titoli al tavolo dei grandi d’Europa, lì dove ci spetta un posto per merito, essendo tra i co-fondatori della UE.

Il programma di Draghi e l’occasione irripetibile in Europa

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