All’EuroWorking Group di giovedì scorso, i creditori pubblici europei hanno espresso preoccupazione per l’aumento del salario minimo legale in Grecia, deciso dal governo Tsipras a partire dalla seconda metà di gennaio e per l’11% a 650 euro al mese. Il gruppo ha fatto notare come Atene sia indietro pure nell’esecuzione di 16 riforme richieste. L’innalzamento del salario minimo, in particolare, se nel breve può essere considerato uno stimolo per i consumi, del resto rischia di deteriorare la già scarsa competitività della Grecia, a discapito dei suoi tassi di crescita.

La misura è stata voluta dal premier Alexis Tsipras in un anno cruciale sul piano politico, con le elezioni europee in programma a giugno e quelle politiche entro ottobre. Syriza, il cartello della sinistra radicale e anti-austerità da lui guidato, nei sondaggi soffre e sarebbe indietro ai conservatori di Nuova Democrazia nei consensi di almeno una decina di punti percentuali.

‘La fine di Tsipras in Grecia è vicina, il debito pubblico va tagliato del 30% e l’euro non funziona’

Dopo avere, suo malgrado, portato i conti pubblici in attivo, con un saldo primario in surplus di circa il 4% del pil, il premier cerca di recuperare consenso con una misura dal forte valore simbolico, in quanto sarebbe la prima nel segno del miglioramento delle condizioni contrattuali del lavoro dopo lo scoppio della crisi nel 2008. Ne sarebbe coinvolti 400.000 lavoratori, ma con un potenziale fino a 1,5 milioni di persone (il 40% degli occupati), tenendo conto delle forme contrattuali atipiche.

La Grecia segnala ancora una volta di non avere compreso la portata della sua crisi “epocale”. Il suo governo di turno ritiene di poterla superare con un allentamento dell’austerità, mentre non si mostra consapevole dell’incompatibilità tra il proprio modello economico e quello dell’area monetaria di appartenenza. IHS Markit prevede, ad esempio, che il paese recupererà i livelli di ricchezza perduti solo per il 2040.

Per quell’anno, sarà tornata al pil reale del 2007. Insomma, brucerà più di tre decenni. In effetti, il suo pil si è contratto di oltre un quarto dal 2007 e il ritmo con cui nel 2017 e 2018 (+1,5% e circa il 2%, rispettivamente) è tornata a crescere appare molto lento per sperare di annullare entro pochi anni gli effetti disastrosi della crisi, anche perché già da quest’anno è atteso un rallentamento a sotto il 2% e per il prossimo decennio non si andrebbe oltre la media annua dell’1,4%.

La Grecia nell’euro non funziona

Cosa rende la crisi ellenica così peculiarmente drammatica? Trattasi di un’economia, che al suo ingresso nel club dell’euro non possedeva i requisiti minimi per farne parte. Sin dagli anni Ottanta, lo stato e la banca centrale avevano condotto una politica fiscale e monetaria eccessivamente espansive, tant’è che il deficit di bilancio nei primi anni Novanta viaggiava su valori medi superiori al 10% del pil e la stessa inflazione superava il 20%, scendendo alla cifra unica solo con la marcia di avvicinamento all’euro. In altre parole, la Grecia cresceva a colpi di spesa pubblica, la quale ha contribuito per oltre la metà del maggiore pil tra il 1980 e il 2008. A fronte di questi forti squilibri, la competitività delle imprese locali è andata a farsi benedire, se è vero che non è esista un solo anno in cui la bilancia commerciale ellenica si sia anche solo lontanamente avvicinata al pareggio, anzi con qualche sparuta eccezione, l’eccesso di importazioni è risultato sempre superiore al 10% del pil.

In pratica, la Grecia prima dell’euro aveva avuto bisogno di un cambio debole, con la dracma ad essersi deprezzata del 75% contro le altre principali valute tra la fine del 1982 e l’ingresso nell’euro di inizio 1999. Solo così poteva essere assicurato l’equilibrio esterno.

Poi, arrivò la moneta unica e, soprattutto, l’illusione della Germania che la mentalità dei greci potesse essere tedeschizzata. E’ accaduto, invece, che i deficit fiscali siano proseguiti quasi intatti (6,3% il disavanzo medio tra il 1999 e il 2007) e sotto la colpevole benevolenza dei commissari, i quali avrebbero dovuto teoricamente sanzionare Atene per il lassismo sui suoi conti pubblici, nonostante il governo fosse ormai capace di rifinanziarsi sui mercati a costi quasi uguali a quelli sostenuti dalla Germania, essendo venuto meno il rischio di cambio per gli investitori stranieri e anche grazie al crollo dell’inflazione rispetto all’era pre-euro. E le importazioni continuavano allegramente a superare le esportazioni di una media mostruosa del 16% rispetto al pil.

Conti pubblici in Grecia migliori delle attese, ma il surplus fiscale strangola l’economia 

La Grecia, quindi, si era presentata all’appuntamento con la crisi nella peggiore delle condizioni, cioè da economia fallimentare, trainata solo dalla spesa pubblica e che aveva sprecato peggio dell’Italia il famoso “dividendo” dell’euro. Il crollo dei tassi, anziché dare sollievo ai conti pubblici, era finito per ingrandire il debito privato, esploso dal 50% del pil di metà anni Novanta al 120% del 2007. E oggi, i crediti deteriorati delle banche elleniche ammontano al 45% del totale, pari a una simile percentuale rispetto al pil, una enormità, considerando che la media europea risulti 15 volte più bassa. Poi, il diluvio. Non vogliamo affrontare lo spinoso capitolo dei fallimenti sia dei creditori pubblici che dei governi succedutisi dal 2008 nell’affrontare la crisi. Il punto in questione è un altro: l’economia ellenica non si è ristrutturata, anche se ha raggiunto il pareggio di bilancio, tagliando la spesa pubblica del 30% con la pistola alle tempie puntata dalla Troika (UE, BCE e FMI), anche grazie agli interessi risparmiati su oltre l’80% del debito pubblico attuale, e alzando la pressione fiscale per circa 4 punti di pil. Per il resto, resta dipendente dalle importazioni, segnalando di produrre in misura insufficiente per la soddisfazione della domanda nazionale o di farlo a costi non competitivi.

L’euro in Grecia non sarà così sicuro per sempre

La mentalità dei politici locali non è affatto mutata. L’austerità viene considerata un fenomeno passeggero, una bestia con cui convivere ancora per poco, seguita dal ritorno allo spandi e spendi degli anni pre-crisi. Pur con accenti molto differenti, tra i vari schieramenti non sembra esservi la reale consapevolezza che la cura da cavallo richiesta ad Atene abbia mirato a cambiarne i connotati una volta per tutte. Lo stesso pareggio di bilancio poco deve entusiasmare, se si pensa che dal 2023 dovranno essere pagati nuovamente gli interessi sul debito dei creditori pubblici, compreso il pregresso del decennio che parte dal 2012, con la conseguenza che i conti pubblici torneranno in passivo e potenzialmente sempre più, man mano che le scadenze dovranno essere onorate rifinanziandosi sui mercati e ai costi imposti dagli investitori privati, certamente superiori a quelli pretesi dai governi europei e dallo stesso Fondo Monetario Internazionale.

Nel frattempo, si è tornati ad alzare il salario minimo, come se le imprese in Grecia avessero la possibilità di sostenere l’aggravio e quando ancora il tasso di disoccupazione supera abbondantemente il 18% e poco più di un greco su due in età lavorativa risulta occupato. Tra non molto, chiunque si trovi al governo invocherà pure un adeguamento delle pensioni e magari persino l’allentamento delle regole per andare in quiescenza. Peccato che la Grecia non solo non sia uscita dalla crisi, ma sembra destinata a rimanerci per ancora un altro paio di decenni, bruciando per il 2040 almeno due generazioni per intero. Prima o poi, anche l’opinione pubblica inizierà a chiedersi se la difesa del benessere conquistato con l’ingresso della Grecia nella ex CEE nel 1986 debba essere perseguita restando nell’euro, quando i fondamentali dell’economia parlano chiaro e raccontano di una realtà con squilibri incompatibili con gli standard occidentali.

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