Giovedì scorso, il presidente Xi Jinping ha annunciato che la Cina ospiterà una terza borsa nella città di Pechino e dedicata alla quotazione delle piccole e medie imprese. Immediato il commento della China Securities Regulatory Commission, che si è detta “eccitata” dall’idea, aggiungendo che “le piccole e medie imprese potranno fare grandi cose”. Sono due le borse ad oggi presenti in Cina: quella del distretto finanziario di Shanghai, nata nel 1990, e l’altra con sede a Shenzen, nel sud del paese.

In realtà, formalmente ve n’è una terza a Hong Kong. Ma si tratta di un territorio autonomo e con una legislazione finanziaria indipendente.

Di recente, il governo cinese aveva prospettato il potenziamento di un segmento “over the counter” già esistente e noto come “New Third Board”. Nato nel 2013, esso non è riuscito a farsi strada tra le altre due borse. Ha avuto successo, invece, l’iniziativa lanciata nel 2018 con la nascita dello Star Market, dedicato alla quotazione delle aziende tech. Oggi, capitalizza 4.700 miliardi di yuan, circa 620 miliardi di euro. Sarebbe la risposta di Pechino al NASDAQ americano.

Terza borsa in Cina, ecco i motivi

Quale sarebbe il senso di dare vita a una terza borsa cinese? Probabile che Xi punti a rafforzare le piccole e medie imprese sul piano finanziario, agevolandone l’afflusso di liquidità da parte degli investitori. Peraltro, la novità arriva in una fase molto delicata per Pechino. Da mesi, il governo sta torchiando le grosse realtà tech, con l’obiettivo di contenerne lo strapotere finanziario e politico. Un anno fa, una dichiarazione critica verso la presunta arretratezza della legislazione finanziaria costò carissimo a Jack Ma, fondatore di Alibaba. Fatto sparire per mesi dalla scena pubblica, la sua società si è vista subito indagata dall’authority per la concorrenza e negare l’autorizzazione per la quotazione della controllata Alipay.

Qualche settimana fa, Xi ha lanciato la prospettiva di una “prosperità comune” quale obiettivo a cui tendere e che metterebbe d’accordo capitalismo e comunismo. In sintesi: chi più ha, deve donare – e tanto – alla collettività. Per tutta risposta, il colosso Tencent si è impegnato a sborsare 7,7 miliardi di dollari per iniziative benefiche. Il CEO, Chen Lei, farà la sua parte con 1,5 miliardi. E lo stesso Ma contribuirebbe, forse donando parte delle sue immense proprietà.

Perché a Pechino? E’ probabilmente un segnale. Il governo vuole fare della capitale un distretto anche finanziario, evitando di rafforzare eccessivamente città troppo lontane dal centro decisionale e che potenzialmente minaccerebbero l’integrità territoriale stessa. Vedi il caso di Hong Kong. Sta di fatto che la novità dovrebbe frenare la corsa delle società di minori dimensioni a quotarsi negli USA, dove le autorità hanno inasprito i controlli sulle richieste in arrivo dalla Cina. Dunque, anche un modo per riparare un possibile danno e al contempo per rilanciare l’appeal internazionale della finanza del Dragone.

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