I testi di economia del lavoro spiegano ormai dall’inizio del Millennio che “i salari si fissano a Pechino”, un’espressione che punta a rimarcare come sia l’economia asiatica ormai a influenzare i meccanismi di formazione dei prezzi, inclusi gli stipendi. La Cina è la seconda potenza economica al mondo dopo gli USA ed entro il prossimo decennio potrebbe diventare la prima. Quel che accade al suo interno non può mai passare inosservato, perché rischia di avere prima o poi ripercussioni sulle nostre vite, anche perché qui vi abita quasi un abitante su cinque della Terra.

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E proprio dalla Cina arriva una notizia, destinata ad avere conseguenze a medio-lungo termine anche sulle economie avanzate. Secondo Forbes, lo stipendio mensile medio di città come Shanghai ($1.135), Pechino ($983) e Shenzen ($938) avrebbe raggiunto e superato quello di alcune economie dell’Europa dell’Est. Un esempio? Lo stipendio medio mensile di un lavoratore croato è di appena 887 dollari, quello di lituano di 956, di un lettone di 1.005, mentre in Estonia si arriva a 1.256 dollari e in Ungheria a 1.139 dollari.

Nel giro di qualche anno, poi, sembra alla portata per i cinesi raggiungere i livelli salariali dei colleghi polacchi ($1.569) e cechi ($1.400), dati gli elevati ritmi di crescita dei primi, rispetto a quelli pur soddisfacenti degli europei orientali.

Salari cinesi sempre meno allettanti per il capitale

Aver colmato il gap salariale con parte dell’Europa rappresenta una svolta per la società cinese e, soprattutto, per quella delle economie più ricche del pianeta. Il costo del lavoro è notoriamente una delle principali variabili, che determina lo spostamento dei capitali da un’economia a un’altra. Se un lavoratore italiano costa 1.000 e uno cinese costa 100, esiste un impulso per le aziende a spostarsi dall’Italia alla Cina. (Leggi anche: Ricetta Boccia: più salar in cambio di produttività)

Se ciò è vero, il raggiungimento dei salari est-europei farebbe ipotizzare un minore incentivo da parte delle multinazionali a delocalizzare la produzione in Cina, disponendo di manodopera qualificata e dai costi simili nel Vecchio Continente.

Certo, il costo del lavoro non è l’unica variabile ad essere tenuta in considerazione in fase di investimento. Anche la burocrazia, le norme ambientali, i diritti sindacali e la tassazione incidono moltissimo.

In ogni caso, possiamo affermare che esisterebbero già alcune condizioni minime per prevedere una minore fuga delle aziende verso la Cina, specie quando nei prossimi anni verranno agganciati i livelli salariali di un numero crescente di paesi dell’Est. A quel punto, per un’impresa tedesca risulterebbe sempre meno appetibile aprire battenti in Cina, piuttosto che nella vicina Polonia, così come per una italiana sarà relativamente più conveniente puntare sulla Croazia.

Lavoratori cinesi fanno meno paura?

Non è ancora la fine di un’era, ma l’inizio di una svolta sì. Non è nemmeno detto che non verranno trovate nuove realtà simili alla Cina. In quei paraggi in Asia esiste un altro gigante da 1,3 miliardi di abitanti – l’India – che potrebbe sostituire progressivamente Pechino nell’attrazione degli investimenti internazionali. Ad oggi, molte delle condizioni favorevoli esibite dall’economia cinese qui non hanno trovato terreno fertile, come suggerisce la carenza di infrastrutture.

Non si può nemmeno, però, sminuire il significato del cambiamento in atto. La Cina è sempre meno un’economia emergente e sempre più una potenza di rilievo internazionale. I salari continueranno ad essere fissati a Pechino, ma nei prossimi anni fungeranno sempre meno da tetto per quelli di numerose altre economie. I lavoratori dell’Est Europa dovranno forse iniziare a temere più i venti contrari di Bruxelles che non l’aria inquinata nella capitale cinese. (Leggi anche: Ora Macron attacca i lavoratori dell’est)