Il governatore della BCE, Christine Lagarde, è stato piuttosto chiaro: la cancellazione dei debiti nell’Eurozona è vietata dai Trattati. Discorso chiuso, ma solo in apparenza. E’ vero, Francoforte non può legalmente condonare i debiti degli stati, cancellandoli con un colpo di spugna dai suoi bilanci. Ma le soluzioni tecniche per arrivare alla medesima soluzione ci sono. La più discussa in questi mesi è quella del bond perpetuo. L’istituto potrebbe convertire i titoli di stato in scadenza e che si trovano nel suo bilancio in obbligazioni a lunghissima scadenza (50, 100 anni) o senza alcuna scadenza, oltre che con un tasso d’interesse risibile.

“La BCE non può cancellare i debiti”, ma Lagarde apre con una frase sibillina

In questo modo, i governi avrebbero di anno in anno meno debito pubblico da rinnovare e la minore offerta stabilizzerebbe il costo dei bond verso il basso, rendendolo sostenibile anche a fronte di rapporti debito/PIL elevati. E se la BCE continuasse ad acquistare titoli ancora per anni, la percentuale di debito che verrebbe sottratta al mercato e ricondotta al suo bilancio salirebbe ulteriormente. Anche il rinnovo automatico delle scadenze, per quanto non efficace come l’annuncio di una conversione in bond perpetui, di per sé sgrava i governi dell’Eurozona delle preoccupazioni riguardo alla ricerca di domanda privata per piazzare il debito presso gli investitori.

C’è una grossa ipocrisia che investe tutte le principali banche centrali del pianeta. Nessuna di esse lo ammette, ma nei fatti ciascuna sta monetizzando il debito dei rispettivi governi da oltre un decennio. Per capirlo, basterebbe leggere i dati dei loro bilanci. Nel 2008, poco prima che fallisse Lehman Brothers e che si scatenasse una potente crisi finanziaria mondiale, gli assets a bilancio della Federal Reserve ammontavano a circa 900 miliardi di dollari, mentre la settimana scorsa risultavano saliti a 7.200 miliardi. In rapporto al PIL USA, sono passati dal 6% al 36%.

Spesa per interessi compressa dal QE

La BCE è andata ben oltre, pur essendo partita più tardi con gli stimoli monetari. Chiudeva il 2007 con un bilancio di circa 1.500 miliardi di euro, mentre due settimane fa si era dilatato a 6.833 miliardi. In rapporto al PIL dell’Eurozona, si è passati dal 16% al 62%. Irraggiungibile, per il momento, la Banca del Giappone: con 690 mila miliardi di yen, oggi ha un bilancio che equivale a circa il 125% del PIL nipponico, mentre nel 2007 arrivava a stento al 20%.

I bilanci sono cresciuti per effetto dei programmi noti come “quantitative easing”, l’allentamento (monetario) massiccio consistito e tutt’ora consistente in acquisti di obbligazioni pubbliche e private. In sostanza, le banche centrali sono diventate i principali creditori di stati e grosse società private, con lo scopo formale di sostenere la liquidità sui mercati finanziari e impedire il collasso dei prezzi al consumo. Nella realtà, queste misure si sono tramutate in un sostegno diretto ai debiti crescenti di stati e industria, i quali rimangono solvibili per il semplice fatto che il mercato non sia costretto a comprarseli per intero.

Perché l’Italia non può chiedere alla BCE la cancellazione del debito pubblico

Del resto, il rapporto debito/PIL nulla ci racconta di per sé. Prima di Lehman, l’Italia spendeva anche 5 punti di PIL all’anno per pagare gli interessi su un debito pubblico che superava di poco il 100%. Oggi, si avvia a spendere non più del 3% su un debito che schizzerà alla fine dell’anno intorno al 160%. In altre parole, il debito rendeva circa il 5% una decina di anni fa, mentre oggi non più della metà. E questo non perché come sistema-Paese siamo percepiti più sicuri – anzi, i rating assegnati al nostro debito sovrano sono stati tagliati da AA a BBB nel corso dell’ultimo decennio – bensì per il soccorso della BCE, che tenendo bassissimi i rendimenti di mercato ci consente di limitare la spesa per interessi.

Nel 1993, un quarto delle entrate dello stato veniva impiegato per servire il debito, oggi circa il 7%. La BCE non ha cancellato il nostro debito, ma gran parte dei suoi costi a carico di tutti i noi contribuenti. Che, se vogliamo, è come dire la stessa cosa.

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