La distruzione dell’edificio da 15 milioni di dollari, costruito a spese di Seul nella città nordcoreana di Kaesong quale sede per le relazioni diplomatiche tra le due Coree, ha fatto il giro del mondo nei giorni scorsi. E’ stata ordinata dal regime di Pyongyang e annunciata qualche giorno prima da Kim Yo-Jong, la sorella del dittatore Kim Jong-Un, che aveva definito il sito “inutile”. La Corea del Nord è frustrata da una crisi che sta diventando sempre più minacciosa per il potere interno e si mostra adirata con il presidente sudcoreano Moon Jae-In, reo di non compiere alcun passo in avanti concreto che ne migliori le condizioni economiche.

La Corea del Nord minaccia ritorsioni contro Seul e Pyongyang muore di fame

Dopo tre vertici con il presidente americano Donald Trump tra il 2018 e lo scorso anno – l’ultimo ad Hanoi -, le sanzioni contro lo stato eremita sono rimaste intatte, anche perché di passi in avanti verso la denuclearizzazione il regime non ne ha fatti e gli USA hanno tutta l’intenzione di tenerlo sotto massima pressione per farlo cedere su un punto ritenuto decisivo per la sicurezza mondiale.

A causa dell’emergenza Coronavirus, Pyongyang ha dovuto chiudere il confine con la Cina, spaventata dall’incubo di una pandemia ingestibile in casa, non fosse altro che per un sistema sanitario del tutto incapace ad affrontare persino l’ordinario. L’atto ha impattato negativamente sulla già poverissima economia domestica, riducendo del 90% le esportazioni nordcoreane verso la Cina e circa altrettanto quelle cinesi verso la Corea del Nord. Considerato che Pechino sia quasi unico partner commerciale, il problema è diventato enorme. Nel paese manca un po’ di tutto, dal carburante ai fertilizzanti per l’agricoltura, passando per i generi alimentari freschi.

Economia nordcoreana in ginocchio

Sotto Kim Jong-Un era stato tollerato un po’ di libero mercato, specie nella capitale, così come proprio alla frontiera con la Cina, dove il contrabbando di beni come l’abbigliamento aveva potuto fiorire senza grosse repressioni del regime.

Adesso, la tolleranza è finita e con essa anche quel poco afflusso di valuta estera forte con cui risultava eppure possibile importare beni e servizi essenziali per quantità almeno minime. La situazione è così grave, che il regime ha imposto la riapertura per le sole attività che consegnino al governo almeno la metà della valuta straniera di cui sono entrati in possesso attraverso gli scambi con l’estero.

Una super-tassa, insomma, così come nei fatti è stato a maggio con l’emissione del primo bond in dollari dopo 17 anni, un modo per raccogliere denaro prezioso tra l’élite facoltosa, specie della capitale, sostanzialmente senza alcuna prospettiva credibile di restituzione del prestito. L’economia quest’anno dovrebbe contrarsi del 6%, una percentuale apparentemente persino bassa rispetto a quelle stimate in Occidente. Ma teniamo conto che il pil pro-capite nella Corea del Nord sia già tra i più bassi al mondo, a circa 1.500 dollari l’anno. E quel che è peggio, il governo non dispone di armi per contrastare la più grave recessione dal 1997, perché oltre a non possedere le risorse allo scopo, non può nemmeno allentare la politica monetaria per paura che esploda l’iperinflazione in un’economia già alle prese con una carenza diffusa di beni.

Serve la pax nucleare

Si stampano pochi won, quindi, né si potrebbe fare altrimenti. Alle imprese non arriva credito e la liquidità scarseggia. Il guaio per Kim è che nella capitale scarseggiano pure i viveri e di questo a inizio mese il dittatore ne ha discusso con i vertici del Partito dei Lavoratori, tutti intimoriti di perdere l’appoggio dell’élite, composta da burocrati dello stato, militari e anche di un’incipiente classe media di piccoli commercianti e imprenditori.

Da quando è al potere, cioè dalla fine del 2011, la maggiore tolleranza verso l’economia privata, pur in forma sommersa, aveva garantito a una parte “fortunata” della popolazione di affrontare meglio le ristrettezze di questi anni, migliorando le proprie condizioni di vita. E ciò ha sinora sorretto il gradimento verso il dittatore, che per quanto dispotico sia non può prescindere come ogni regime da un minimo di consenso interno.

Il missile lanciato contro l’edificio di Kaesong è segno di puro nervosismo, un modo per ottenere che USA e Corea del Sud si precipitino a dialogare tra loro e allentare successivamente le sanzioni contro Pyongyang, al fine di salvaguardare la sicurezza nell’area. Ma non è con le minacce che Kim Jong-Un otterrà qualcosa dalla Casa Bianca, disposta sì con Trump ad allentare l’embargo, ma dietro lo smantellamento dell’arsenale nucleare. D’altra parte, questo per il regime rimane la polizza assicurativa contro possibili tentazioni golpiste dall’esterno, Cina inclusa. Può solo sperare che il presidente americano, in piena corsa per la rielezione, voglia sorprendere il suo elettorato con un accordo last minute improntato alla distensione. Certo, non in cambio di vuote promesse o di nulla. Kim dovrà scegliere tra burro e cannoni.

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