L’America non si ferma. Dopo essere cresciuta del 3,2% nel primo trimestre, in accelerazione rispetto al 2,2% annuo registrato nell’ultimo trimestre del 2018, anche i dati sull’occupazione continuano a sorprendere positivamente. Ad aprile, i posti di lavoro non agricoli creati sono stati pari a 263.000, sopra le attese di +185.000, tali da spingere il tasso di disoccupazione ancora più in basso, vale a dire al 3,6%, ai minimi dal 1969, 50 anni esatti. Eppure, la reazione che si è avuta sul mercato dei Treasuries è stata di un calo dei rendimenti, con il decennale ad essere arretrato al 2,52% dal 2,56% precedente alla pubblicazione dei dati sulle “payrolls”.

Anche il dollaro ripiega mediamente contro le altre principali valute, perdendo lo 0,18%, pur guadagnando qualcosa contro l’euro.

Più lavoro e tassi bassi: così Trump punta all’en plein 

Ci saremmo dovuti aspettare la reazione opposta, cioè la risalita dei rendimenti e l’apprezzamento del dollaro, dato che questi numeri confermerebbero che l’economia americana sarebbe lontana dalla recessione, come pure si temeva fino a qualche mese fa. Come mai? A fronte di un mercato del lavoro che continua a macinare posti di lavoro, i salari orari mediamente crescono a ritmi moderati: +3,2% annuo ad aprile, stesso dato di marzo, +0,2% mensile.

L’inflazione resta bassa

Questo significa che la pressione sui prezzi non starebbe diventando così forte come si è portati a credere. Insomma, l’economia cresce, l’America è in piena occupazione, risultano esservi più posti vacanti che disoccupati, eppure il costo del lavoro non sembra aumentare a livelli da impensierire la Federal Reserve, che monitora tra l’altro proprio i salari orari per capire i possibili effetti a medio termine sull’inflazione. Viceversa, questa resta sotto il target del 2%, anche se è probabile che, così come nell’Eurozona, in conseguenza del rally delle quotazioni petrolifere anche qui salirà già a partire da aprile.

I mercati starebbero prendendo nota e, in effetti, stando a CME Group, principale società di derivati, al gennaio prossimo vi sarebbe quasi il 57% delle probabilità che la Fed tagli i tassi. Qualche settimana fa, tale percentuale superava i due terzi. Dunque, pur rimanendo gli investitori convinti che nel prossimo futuro la banca centrale americana non alzerà i tassi e che, anzi, li taglierà, quest’ultimo scenario è dato adesso meno scontato, perché le stesse condizioni della prima economia mondiale lo renderebbero meno impellente di quanto si fosse immaginato.

In America più offerte di lavoro che disoccupati, è record in era Trump

Va anche detto che altri segnali indurrebbero a un minore ottimismo: l’indice manifatturiero in aprile è sceso ai minimi da ottobre 2016, pur rimanendo in espansione. E gli stessi driver della crescita nel trimestre scorso sarebbero legati più a fattori di natura temporanea, come l’aumento delle esportazioni (in previsione di una possibile “guerra” dei dazi con la Cina?), mentre consumi e investimenti – diremmo, le componenti “solide” della domanda – hanno contribuito all’aumento del pil solamente per un terzo complessivamente. Per concludere, la recessione non sarebbe dietro l’angolo, così come nemmeno il taglio dei tassi. Il mercato, però, fiuta il rischio che questa fase di straordinaria crescita possa sgonfiarsi nel corso dei prossimi mesi. E la pressione di Donald Trump sul governatore Jerome Powell si farà fortissima a ogni minimo segnale di rallentamento dell’economia.

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