“L’Italia è il Paese che amo. Qui ho le mie radici, le mie speranze, i miei orizzonti”. Con queste parole iniziò il primo discorso videoregistrato con cui il 26 gennaio del 1994 Silvio Berlusconi annunciò la sua “discesa in campo” per candidarsi alle elezioni politiche. Nulla un attimo dopo sarebbe stato come un attimo prima. Un imprenditore di successo per la prima volta nel nostro Paese decideva di buttarsi in politica, un’arena fino ad allora riservata agli appositi professionisti dal pluridecennale “cursus honorum”.

Già il linguaggio parve a tutti innovativo, di rottura con il passato. C’era voglia di aria nuova, di svecchiamento delle istituzioni. La Prima Repubblica era collassata con tangentopoli, un’intera classe dirigente era stata messa alla gogna e le pubbliche piazze ne reclamavano la testa.

La discesa in campo di Berlusconi

Con Berlusconi cambia tutto. Si passa da un sistema partitico dalle alleanze ignote a coalizioni predefinite. E, soprattutto, il Cavaliere sceglie di guidare un cartello di centro-destra che include la sua Forza Italia dalle istanze liberali, i post-fascisti del Movimento Sociale Italiano e gli autonomisti della Lega Nord. Contro vi è la macchina “da guerra” collaudatissima di Achille Occhetto, a capo dei post-comunisti del PDS e dell’area progressista. Al centro la presenza insignificante dei Popolari, ciò che rimane della gloriosa Democrazia Cristiana.

L’Italia sta peggio di 30 anni fa

Sono passati 30 anni da quel momento storico. Berlusconi nel frattempo è stato premier per una decina di anni e andando al governo per tre volte (1994, 2001 e 2008). E’ morto sette mesi fa, lasciando un partito con percentuali notevolmente inferiori a quelle di un tempo. L’alleanza di centro-destra, malgrado alcuni inciampi, regge e dall’ottobre del 2022 è tornata a governare l’Italia. Il centro-sinistra versa in stato confusionale. Una nuova forza politica nell’ultimo decennio ha occupato lo spazio giustizialista della vecchia sinistra – il Movimento 5 Stelle – e l’Italia ha abbandonato la lira per aderire all’euro sin dall’inizio.

Impossibile fare una sintesi di cosa siano stati questi tre decenni. Servirebbero manuali. Una battuta ce la possiamo permettere, però, senza ombra di dubbio: l’Italia non sta meglio di 30 anni fa. Da diversi punti di vista. La nostra economia indietreggia nelle classifiche internazionali e non riesce a crescere proprio dalla fine della Prima Repubblica. Il debito pubblico è diventato un assillo paralizzante del sistema politico-istituzionale, non ci permette di ragionare del futuro e di destinare risorse per cercare di camminare alla stessa velocità degli altri. Le distanze tra Nord e Sud sono cresciute, così come tra cittadino e istituzioni.

La rivoluzione liberale non c’è stata

La discesa in campo di Berlusconi avvenne sulla promessa di una rivoluzione liberale. Lo stato avrebbe fatto un passo indietro in economia e favorito la creazione della ricchezza, dell’occupazione, finendo per far stare meglio tutti. Non è avvenuto. La presenza dello stato durante questi ultimi decenni non ha fatto che aumentare, la burocrazia è rimasta soffocante, le leggi tantissime e confusissime, l’impresa è ancora più vessata e gli spazi di libertà economica per il cittadino si sono ridotti.

Facile parlare di tradimento delle promesse. La questione di fondo è molto più drammatica. Una classe dirigente (politici, dirigenti d’impresa, intellettuali, ecc.) è stata smantellata con il tintinnio delle manette per essere rimpiazzata da gente improvvisata. E come quasi sempre accade quando metti alla guida di organismi persone che passano di lì per caso, i risultati che si raccolgono sono pessimi. L’Italia della Seconda Repubblica non ha saputo e potuto tenere la schiena dritta nei consessi internazionali. E’ stata comprata per noccioline. Anzi, il più delle volte non ha ricevuto neppure un minimo pagamento. E’ bastata l’avvertita esigenza di ingraziarsi capi di stato, di governo e potentati economici di turno.

Berlusconi parafulmine di lotta tra poteri

Basterebbe queste cifre per capire che siamo reduci da un pesante fallimento: in 30 anni abbiamo avuto 12 presidenti del Consiglio differenti, di cui 3 “tecnici”, e si sono succeduti ben diciassette governi. Non si riesce neanche a tenere il conto di tutte le sigle partitiche nate e decedute nel frattempo. Le stesse formule di governo si sono sprecate. Altro che Prima Repubblica! Ma le condizioni di vita degli italiani sono peggiorate. Gli stipendi reali sono fermi da inizi anni Novanta, i giovani espatriano in cerca di opportunità di carriera o anche di un semplice lavoro idoneamente retribuito come se fossimo negli anni Sessanta o Settanta.

E non possiamo prescindere dal rapporto malato tra politica e magistratura. Berlusconi è stato il parafulmine di una lotta tra poteri dello stato fuori controllo. Non s’intravede ancora una soluzione. Siamo dinnanzi a un’eccezione devastante nel contesto internazionale, anche se non conforta verificare che qualcosa di simile stia iniziando ad accadere da qualche tempo negli Stati Uniti. L’Italia di oggi è alla mercé del “vincolo esterno“, segno tangibile dell’assenza di autostima. Siamo spesso una Nazione sfiduciata, invecchiata, rancorosa, delusa, frustrata, arrabbiata. Non per caso. La politica ha tradito la sua missione e non si è rivelata credibile. Un anniversario amaro quello dei 30 anni dalla fine conclamata della Prima Repubblica.

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