Nicolas Maduro ha stravinto un secondo mandato di 6 anni alle elezioni presidenziali di ieri. Il presidente uscente ha ottenuto 5,8 milioni di voti (67,7%) contro gli 1,8 milioni di Henri Falcon e i 930.000 del pastore evangelico Javier Bertucci. Scarsa l’affluenza, crollata dall’80% del 2013 al 46,1%. E secondo le opposizioni, quella reale sarebbe stata non superiore al 30%. Dunque, a votare si è recato meno di un elettore su due, ma le elezioni, per quanto siano state una farsa del regime “chavista”, hanno avuto quella parvenza di regolarità data dalla candidatura di Falcon, ex membro del Partito Socialista e passato all’opposizione nel 2010.

Alla diffusione dei dati, l’uomo ha annunciato denunce per numerose irregolarità e si è detto “oltraggiato” dalla presenza di ben 13.000 stand dei sostenitori pro-Maduro, collocati in prossimità di altrettanti seggi elettorali nella giornata di ieri. Il loro scopo sarebbe stato di fornire assistenza alimentare con le famose tessere introdotte nel 2016, ma limitatamente a quanti dimostrassero di avere votato il presidente uscente.

Gli USA non riconosceranno l’esito del voto, come ha spiegato il vice-segretario di Stato, John Sullivan, che ha aggiunto che Washington intende comminare sanzioni sempre più efficaci contro Caracas, che non colpiscano il popolo venezuelano, in modo che non si rivelino dannose quando verrà ripristinata la democrazia. Inutile dire che le opposizioni, che hanno boicottato l’appuntamento, hanno anch’esse denunciato brogli. Sia come sia, Maduro resterà in carica altri 6 anni, salvo novità. Un pessimo segnale per un’economia devastata dall’iperinflazione, stimata dall’Assemblea Nazionale attualmente in area 14.000%, in cui i prezzi hanno perso da tempo ogni reale significato, in cui manca di tutto, persino le banconote necessarie per pagare acquisti risibili come un caffè o un giornale e dove la produzione di petrolio, unico bene esportato, sta collassando ai minimi storici. Di fatto, per molti scambi si sta tornando al baratto, nel tentativo di superare le problematiche legate all’uso di una carta-moneta priva ormai di valore e incapace di fungere da unità di conto.

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Un futuro ancora più tetro davanti

Il bolivar ha perso il 99% del suo valore nel 2017 e continua a crollare di giorno in giorno al mercato nero, dove scambia a oltre 752.000 contro un dollaro. Quando Maduro assunse le redini della presidenza, il cambio illegale era ancora intorno a 25:1. E se decine di migliaia di venezuelani fuggono in Colombia da mesi, alla ricerca di generi alimentari per sopravvivere, il peggio potrebbe arrivare nei prossimi mesi, man mano che le estrazioni di greggio si assottiglieranno per i sotto-investimenti realizzati in era chavista, che oggi impediscono a Caracas di trivellare nuovi pozzi e di sfruttare appieno quelli già attivi. Ad aprile, il paese ha estratto 1,5 milioni di barili al giorno, circa 800.000 in meno rispetto allo stesso mese dello scorso anno. E pensare che il Venezuela è il primo detentore di riserve petrolifere al mondo con oltre 300 miliardi di barili. Nonostante le quotazioni dell’oro nero siano arrivate sull’orlo degli 80 dollari, quindi, l’economia venezuelana continua a non percepire alcun beneficio, assistendo a un crollo della produzione e delle entrate in dollari.

Secondo il managing director per l’America Latina di Medley Global Advisors, Luisa Palacios, entro un anno il paese andino estrarrà 1,1 milioni di barili al giorno. Considerando che gran parte della produzione risulta vincolata al pagamento dei debiti contratti, in particolare, con Russia e Cina, si capisce come il futuro dell’economia venezuelana appaia ancora più nero di quanto non lo sia già oggi. E ConocoPhillips ha vinto nei giorni scorsi un arbitraggio internazionale da 2 miliardi per un esproprio subito nel 2007, iniziando a sequestrare alcuni impianti nelle Antille Olandesi e di proprietà della compagnia petrolifera statale PDVSA.

Si tratta di un segnale gravissimo per la sopravvivenza finanziaria di Caracas, visto che da tali impianti passa la raffinazione del greggio esportato verso economie come Nord America e India.

Il Venezuela è formalmente in default dalla fine dello scorso anno, avendo saltato scadenze per 1,6 miliardi di dollari. Dispone di riserve per appena 9,4 miliardi, di cui i tre quarti in oro. Nel corso della settimana passata, i prezzi dei bond sono tornati a ripiegare, forse nella presa d’atto da parte degli investitori che non ci si stesse dirigendo verso una svolta politica con le elezioni farsa di ieri. Il titolo con scadenza 2038 ha perso il 7,3%, portando il rosso al 38% su base annua. Di fatto, il mercato sta scontando una ristrutturazione del debito sovrano a condizioni molto penalizzanti per i creditori, con cui le trattative per la rinegoziazione sono iniziate ufficialmente nel novembre scorso, ma finendo subito nel nulla e senza che si sappia alcunché di cosa abbia in mente il governo.

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