L’America ha concluso il 2019 con un deficit commerciale di 616,755 miliardi di dollari, in calo rispetto all’anno precedente. E non accadeva dal 2013. Con la Cina, il passivo si è ridotto del 17,6% a 345,6 miliardi, giù dal record toccato nel 2018. Le importazioni sono diminuite, infatti, più delle esportazioni verso Pechino (-16,2% versus -11,3%). Messico e Canada figurano come primo e secondo partner commerciale degli USA, la Cina è solo terza. A seguire, troviamo il Giappone e dopo la Germania. L’Italia non compare nella top 10, mentre vi è la Francia con un interscambio di oltre 95 miliardi di dollari.

Poco importa, perché mentre Parigi vanta esportazioni nette sul mercato americano per meno di 20 miliardi, l’Italia nel 2019 ha toccato il suo record storico di 33,4 miliardi.

In tutto, l’interscambio vale quasi 81 miliardi di dollari, qualcosa come circa un decimo della somma tra importazioni ed esportazioni complessive dell’Italia con il resto del mondo. Eppure, il peso dell’America per il nostro Made in Italy si rivela determinante. Manca ancora il dato di dicembre, ma ad occhio e croce dovremmo avere chiuso il 2019 con un avanzo commerciale superiore ai 50 miliardi di euro. Tenuto conto del cambio euro-dollaro, il surplus con gli USA avrebbe così inciso per quasi il 59%. In breve, su 100 euro di esportazioni nette, 59 sono arrivati dagli USA.

Lo scorso anno non è stata un’eccezione, quanto all’insegna del trend degli ultimi anni. Da quando la bilancia commerciale italiana è tornata in attivo, cioè dal 2012, gli USA hanno pesato per il 60% delle esportazioni nette, qualcosa come 187 miliardi di euro su un totale di 310 miliardi. Questo significa che senza il mercato di sbocco a stelle e strisce, la nostra economia sarebbe stata mediamente più piccola di oltre l’1% all’anno. Di per sé non è poco e se pensiamo che la crescita media annuale dell’Italia nell’ultimo quinquennio si sia attestata intorno ai tre quarti di punto di pil, capiamo benissimo quanto l’America segni il confine tra recessione e stagnazione.

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Guerra commerciale minaccia per l’Italia

Interessante il trend di lungo periodo: in 10 anni, le esportazioni nette sono aumentate del 135% verso gli USA, mentre da inizio anni Novanta sono decuplicate. Eppure, presso la prima economia mondiale esportiamo appena il 10% delle nostre merci e dei nostri servizi, importando per il 4,5% del totale. Ma proprio l’enorme differenza tra import ed export ci consente di maturarvi un surplus, che da solo vale oltre la metà di quello che registriamo verso tutto il mondo. Ed è vero che la Germania registra esportazioni nette dal valore doppio nei confronti degli USA, ma la loro incidenza su quelle totali tedesche oscilla intorno a un quarto, cioè Berlino risulta dipendente da Washington per meno della metà di quanto non lo sia Roma.

Queste cifre ci segnalano che se c’è un’economia che può permettersi che l’Unione Europea ingaggi una “guerra” commerciale con l’America di Donald Trump, essa è proprio l’Italia. Non solo perché abbiamo un surplus eccessivamente concentrato su quel mercato, ma anche perché senza di esso non riusciremmo nemmeno a reggere i livelli di pil, cioè finiremmo in recessione. Lo scorso anno, ad esempio, siamo cresciuti dello 0,2%, stando alle stime preliminari Istat, mentre il surplus commerciale con gli USA si è attestato a poco meno di 30 miliardi, incidendo per l’1,7% del pil. In altre parole, senza i consumatori americani le nostre imprese avrebbero in molti casi chiuso battenti.

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