Quando agli inizi di marzo era diventato chiaro che il mercato petrolifero stesse per imbattersi in una grave crisi da eccesso di offerta, l’Arabia Saudita cercò un accordo con la Russia per tagliare la produzione di almeno 1 milione di barili al giorno. Mosca rispose picche e come ritorsione Riad annunciò di aumentare le estrazioni per provocare il collasso delle quotazioni. Quello che il principe Mohammed bin Salman non avrebbe immaginato è che l’entità dell’eccesso di offerta sarebbe esplosa a circa 25 milioni di barili al giorno con i “lockdown” dei governi contro il Coronavirus e che ciò avrebbe più che azzerato le quotazioni del WTI americano, impattando disastrosamente anche sul Brent, ad oggi sotto i 30 dollari al barile.

Pochi giorni fa, il regno è stato costretto ad annunciare un ulteriore taglio da 1 milione di barili al giorno, dopo quello da 9,7 milioni varato dall’OPEC Plus ad aprile per maggio e giugno. La produzione saudita scenderà così a meno di 7,5 milioni di barili al giorno. In aprile, era stato portata a 12 milioni, mentre nei mesi precedenti si attestava sui 9,7 milioni. L’impatto sulle finanze statali si sta rivelando già dirompente, perché il petrolio fornisce ancora i due terzi delle entrate fiscali.

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E così, questa settimana è arrivata la doccia fredda per i sudditi sauditi: da luglio, l’IVA triplicherà dal 5% al 15% e i sussidi mensili erogati verranno tagliati. Queste misure varranno l’8% del pil. Per intenderci, sarebbe come se il governo italiano annunciasse aumenti delle tasse e tagli alla spesa per un totale di oltre 140 miliardi di euro. In effetti, nel primo trimestre si era già registrato un disavanzo di 9 miliardi e nel solo mese di marzo le riserve valutarie risultano essere scese di 24 miliardi a 473 miliardi di dollari. Pur restando molto alte, il ritmo con cui stanno riducendosi allarma il regno, che non a caso sta correndo ai ripari con misure di austerità fiscali inimmaginabili.

L’austerità fiscale morde

Il principe MbS non ha fatto tesoro della lezione dell’ultima crisi. Il tracollo delle quotazioni petrolifere dal 2014 ha provocato un deficit di bilancio cumulato di 400 miliardi al 2019, coperto per circa 150 miliardi ricorrendo all’indebitamento e per 250 miliardi sfruttando le riserve. Quelle sufficienti per garantire il mantenimento del “peg” tra rial e dollaro ammonterebbero sui 300 miliardi, per cui ancora Riad sarebbe in zona di sicurezza. Resta il fatto che il crollo delle entrate debba essere colmato in fretta da soluzioni strutturali, altrimenti la capacità di attrazione dei capitali svanirà in meno che non si dica.

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Lo stesso indebitamento sui mercati avverrebbe a costi crescenti senza un piano concreto e immediato per tendere al pareggio di bilancio e che sganci le finanze statali dall’eccessiva dipendenza che ancora mostrano verso il greggio. Ma l’austerità fiscale fa rima con impopolarità. E sino ad oggi, la gradualità con cui il principe ha voluto diversificare le fonti di entrata e ridurre la spesa pubblica è stata determinata dal timore di indisporre i sudditi, i quali hanno potuto beneficiare di un sistema di assistenza sociale quasi unico al mondo e grazie al quale i tumulti che altrove alimentarono forti tensioni politiche durante la Primavera Araba, qui non hanno trovato terreno fertile per attecchire.

Ma non risulta affatto semplice triplicare l’IVA e tagliare l’assistenza in un paese in cui i tassi di occupazione sono storicamente assai bassi proprio per le diffuse elargizioni pubbliche che consentono a milioni di famiglie di vivere senza lavorare, per non contare i 3 milioni di dipendenti pubblici su una popolazione di appena 20 milioni di cittadini, a cui si aggiungono 10 milioni di stranieri.

L’emergenza Coronavirus starebbe accelerando un processo già in corso da tempo con il lancio del “Saudi Vision 2030” nella primavera del 2016, un progetto riformista soltanto appena iniziato da MbS.

Rischio “de-pegging”?

I rischi per la monarchia arrivano anche dall’estero. Avere contribuito a far schiantare le quotazioni petrolifere le sta alienando le simpatie dei suoi due più grandi alleati: Donald Trump e Vladimir Putin. USA e Russia sono rispettivamente prima e seconda potenza produttrice nel mondo e i due leader non hanno preso affatto bene la linea di Riad, tesa a colpirne le industrie estrattive. E in un momento in cui i petrodollari devono essere centellinati, i sauditi non possono permettersi più di ingaggiare costose “proxy war” nel Medio Oriente in funzione anti-iraniana. Oggi più di prima hanno bisogno del sostegno americano nell’area e di almeno un tacito accordo con i russi.

C’è un’arma che resta a disposizione del regno, ma che verrebbe sfoderata solo in casi estremi: il “de-pegging”. Sganciando il rial dal dollaro dopo 35 anni significherebbe svalutare il cambio e aumentare per tale via le entrate petrolifere in valuta locale, riducendo i deficit fiscali e, di conseguenza, le misure di austerità necessarie a colmarli. Tuttavia, questa soluzione provocherebbe un’esplosione dell’inflazione, con inevitabili malumori popolari. Questo fu il percorso seguito da Mosca a fine 2014 e che, bisogna ammettere, funzionò. Le casse statali russe furono preservate e dopo un biennio di alta inflazione, la crescita dei prezzi domestici si è stabilizzata.

Se Riad decidesse di usare questa arma “atomica” per superare la crisi, però, provocherebbe sconquassi sui mercati finanziari. Il suo cambio fisso è stato considerato ad oggi tra le poche certezze su cui confidare e se venisse meno, il valore degli investimenti stranieri sul mercato saudita evaporerebbe e l’afflusso dei capitali si arresterebbe per il timore di instabilità valutaria. E l’obiettivo di un’apertura alla finanza straniera per diversificare l’economia saudita rischierebbe di allontanarsi, anziché divenire più alla portata.

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