Andare al supermercato e vedere tante persone fare il giro tra gli scaffali, muniti di telefonini e notebook per scattare foto ai prezzi e concordare con chi sta a casa quali prodotti cambiare. Bisogna fare in fretta, perché i prezzi salgono così rapidamente, che già quando si arriva alla cassa per pagare, il più delle volte sono già stati aggiornati al rialzo. E’ la desolazione dello Zimbabwe odierno, quello stato dell’Africa sud-orientale, che da poche settimane ha seppellito il suo anziano ex presidente Robert Mugabe, nonché le speranze che il suo successore Emmerson Mnangagwa potesse mutare in meglio il destino dei suoi 16 milioni di abitanti.

Zimbabwe svolta dopo Mugabe e tende la mano ai bianchi, ma il mercato resta guardingo

Invece, ci si sta dirigendo molto velocemente ai tempi bui dell’era Mugabe, a quel 2008-2009, quando l’iperinflazione divorò l’economia, costringendo Harare ad abbandonare la sua moneta per adottare un paniere di valute straniere da utilizzare per gli scambi con l’estero e le transazioni domestiche. Questo limbo è durato un decennio, fino al giugno scorso, mese in cui il governo ha vietato l’uso del dollaro USA e delle altre valute straniere per i pagamenti. L’unica moneta accettata per le transazioni è diventata il “Real Time Gross Settlement Dollar” (RTGSD), vale a dire il dollaro elettronico locale, il cui tasso di cambio è stato fissato a 6,2 contro il dollaro americano.

Il rovinoso ritorno alla sovranità nazionale

La svolta è seguita all’impennata dell’inflazione, che già nella scorsa primavera accelerava di mese in mese verso la soglia del 100%, frutto della carenza diffusa di beni provocata da una moneta – il dollaro USA – troppo forte per commerciare con l’estero per i fondamentali dello Zimbabwe, ma anche da scarsi investimenti esteri e dal controllo dei prezzi voluto dal governo, che unitamente alla prosecuzione di politiche contrarie al business hanno disincentivato la produzione locale.

E così, il paese negli ultimi anni ha accusato una bilancia commerciale in passivo per la media di quasi il 10% del pil.

Tuttavia, la toppa rimediata è stata molto peggiore del buco. Non appena reintrodotta la valuta nazionale, la popolazione è corsa a liberarsene per timore che si trattasse di carta straccia utilizzata dal governo per spendere sopra le sue possibilità come un decennio fa. Ne è seguita una forte svalutazione, con il cambio contro il dollaro USA ad essersi portato fino a un minimo di 20:1 a settembre, viaggiando adesso in area 18:1, quasi 3 volte più basso di quello ufficiale. Da qui, l’esplosione dei prezzi, che impoverisce ogni giorno che passa sempre più persone e lascia al buio fino a 18 ore al giorno le famiglie, a causa della scarsa generazione di energia elettrica.

Sovranità monetaria? Corsa agli sportelli delle banche e paura dell’iperinflazione

La strada spianata per il Venezuela

Lo Zimbabwe ha il secondo tasso d’inflazione più alto al mondo dopo il Venezuela, al 288,50% in agosto, ma il governo ha deciso di sospendere fino agli inizi del prossimo anno l’aggiornamento delle pubblicazioni, ufficialmente per gestire la transazione dei dati in valuta locale, mentre un po’ tutti pensano che punti a nascondere ai cittadini il reale livello d’inflazione, che avrebbe già superato il 500% su base annua. Il passo verso l’iperinflazione sembra compiuto, anche perché similmente al Venezuela di Nicolas Maduro, la retorica anti-capitalistica qui si sostanzia nella minaccia sempre viva di espropriare le terre ancora in mano alla minoranza bianca, la molla che fece esplodere i prezzi nel 2008.

Chi mai dall’estero potrà portare i capitali in un paese in cui si rischia l’esproprio? L’incertezza aumenta le difficoltà dello Zimbabwe, dove il sogno di tornare alla normalità dopo 36 anni di regime sotto Mugabe si è infranto in pochi mesi, il tempo necessario per capire che la democrazia promessa da Mnangagwa fosse solo una parvenza.

Invece, la reazione del nuovo presidente alle proteste di inizio anno contro l’aumento del 131% per la benzina e del 125% per il diesel fu la repressione, con 12 morti e 78 feriti.

La stangata si è resa necessaria per cercare di ridurre la domanda di carburante e rimediare così alla sua carenza. Ma passare da un sistema in cui lo stato impone i prezzi su tutti i beni a un libero mercato è impopolare e comporta una transizione dolorosa per via dell’alta inflazione. Ma qui siamo di fronte all’assenza di visione complessiva, a una mancata strategia per rilanciare l’economia, cosa che rende lo spettro dell’iperinflazione più che mai concreto, quando il flagello è ancora freschissimo nelle menti degli abitanti di questa sfortunata terra, un tempo chiamata “granaio dell’Africa” e oggi ridotta a un Venezuela qualsiasi.

Un’altra Venezuela in Africa, tra carenza di dollari e spirale mortale dell’economia 

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