Wirecard ha presentati ieri istanza di fallimento, a distanza di sette giorni dallo scoppio dello scandalo sugli 1,9 miliardi di euro di liquidità irreperibile e che per ammissione degli stessi dirigenti potrebbe non essere mai esistita. Nel frattempo, il ceo Markus Braun è stato prima sostituito con un funzionario di Deutsche Boerse e dopodiché arrestato dalla polizia di Monaco di Baviera. Il suo protégé, l’austriaco Jan Marsalek, è finito indagato e le azioni hanno perso circa il 97% in sei sedute. Si chiude nella mestizia la storia di una società nata nel 1999 e che aveva sopravvissuto per miracolo all’esplosione della bolla “dotcom” del 2000.

Il caso Wirecard imbarazza la Germania e inasprisce le tensioni con la BCE

Ne aveva compiuti di passi, se pensiamo che inizialmente gestisse solamente i pagamenti elettronici delle società di scommesse online e di quelle attive nella pornografia. Nel 2005 era arrivato lo sbarco in borsa, ma già nel 2008 erano iniziati i primi sospetti pubblicamente esternati da un gruppo di azionisti sulla veridicità dei bilanci. Nel 2015, invece, fu il quotidiano britannico Financial Times ad avere avviato quella che è stata ironicamente ribattezzata “House of Wirecard”, cioè una serie di indagini a puntate sui magheggi contabili della tedesca, specie attraverso le filiali in Asia.

Brutta storia per un colosso dei pagamenti elettronici, che meno di due anni fa riusciva a capitalizzare in borsa sui 24 miliardi di euro, mentre ieri risultava crollato a circa 330 milioni. E dire che con la pandemia e il boom degli acquisti online, il business per la società mostrava prospettive a dir poco raggianti. Tra i suoi clienti troviamo Aldi, Bayer Muenchen, Citigroup, Ikea, Swiss e Softbank. Insomma, si era fatta un nome e tutto questo è stato spazzato via in pochi giorni, così come probabilmente i 5.000 posti di lavoro creati nel mondo.

Tensioni con USA e UK

Per la Germania è un brutto colpo, in quanto emerge quanto scarsi o compiacenti fossero stati i controlli della BaFin, la Consob tedesca.

Con la bancarotta, si chiude una stagione di speranza per la ricca Baviera, che ha pensato sino ai giorni scorsi di poter competere con la Silicon Valley con la creazione di un’area destinata ad accogliere le imprese del comparto tecnologico. La buonanima di Giulio Andreotti, sette volte presidente del consiglio italiano e poi senatore a vita, diceva che “a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca”. La sapeva lunga d’altronde, essendo stato il custode di chissà quanti inconfessabili segreti della Prima Repubblica. E il sospetto che dietro allo scandalo si celi un “timing” affatto casuale esiste.

Proprio in queste settimane, la Germania sta mettendo a punto un piano per finanziare il “Recovery Fund” da 750 miliardi, che contempla l’imposizione di alcune imposte comunitarie per un valore annuale di 25-27 miliardi. Tra queste rientra l’ipotesi di una “web tax”, cioè un balzello su tutte le società più grosse operanti su internet, tra cui Google, Facebook, Twitter, ma anche Apple, Amazon, Microsoft, etc. La Casa Bianca non l’ha presa bene e ha reagito con l’imposizione di nuovi dazi su merci europee per 3,1 miliardi di dollari. Un avvertimento di Donald Trump a Bruxelles, affinché non si azzardi a minacciare le grosse realtà della Silicon Valley.

Guarda caso, nel bel mezzo di queste nuove tensioni USA-UE arriva la botta Wirecard, così come nel 2015, mentre Washington e Bruxelles (alias, Berlino e Parigi) litigavano sull’accordo commerciale di libero scambio – eravamo ancora all’era Obama – esplose lo scandalo Volkswagen sulle emissioni inquinanti taroccate in fase di collaudo. Ma il caso Wirecard si arricchisce stavolta di uno scenario più ampio e complesso. In questi mesi di pandemia ci stiamo dimenticando che sul tavolo di Bruxelles scotta il caso “Brexit”, con il Regno Unito uscito dalla UE a fine gennaio e in cerca di un accordo commerciale per regolare gli scambi dopo la fase di transizione, che dovrebbe concludersi quest’anno.

Un duro colpo per i tedeschi

Ad oggi, le parti restano lontane e complici i mancati faccia a faccia tra il premier Boris Johnson e i commissari europei per via del Coronavirus, le distanze tra le due sponde della Manica non si stanno colmando, con il rischio che la UE punti concretamente a insidiare la City come hub finanziario. A beneficiare dell’eventuale ricollocazione di società, compagnie, banche e fondi d’investimento in Europa sarebbero capitali come Berlino, Parigi e L’Aia. Ma il caso Wirecard getta discredito sul sistema finanziario tedesco, segnalando i controlli fallaci e la scarsa trasparenza offerta al mercato. E se vuoi raccogliere anche solo in minima parte l’eredità di Londra, uno scandalo del genere ti sega le gambe.

In un colpo solo, in Germania starebbero svanendo il sogno di una Silicon Valley bavarese e quello di fare di Francoforte un centro finanziario all’altezza della capitale UK. Per il sistema tedesco è un duro colpo, anche perché vacilla sempre più l’immagine di un popolo ligio al rispetto delle regole e dalla condotta impeccabile, moltiplicandosi i casi che sconfessano questo mito teutonico. Se mandante c’è stato, il messaggio che avrà voluto inviare a Berlino sembra piuttosto chiaro: “la vostra solidità ha le fondamenta di argilla. Tutto può venir giù in men che lo capiate!”.

Scandalo Wirecard: azioni crollate, spariti 2 miliardi e una giovane si è arricchita

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