E’ una storia imbarazzante per la Germania quella che ha travolto Wirecard, colosso tedesco della fintech, che nelle sole sedute di giovedì e venerdì della scorsa settimana ha perso alla Borsa di Francoforte fino all’80% del suo valore, chiudendo a 25,82 euro, quando al termine della giornata di mercoledì le sue azioni valevano ancora 104,50 euro. Adesso, la società capitalizza appena 3,14 miliardi, circa 9,5 miliardi in meno in due giorni. Cos’è successo? Giovedì, Wirecard avrebbe dovuto pubblicare i risultati della prima trimestrale, ma la società di revisione Ernst & Young ha comunicato di non averne potuto certificare i bilanci, non essendo stata in grado di risalire agli 1,9 miliardi di accantonamenti indicati dalla società e di cui non vi è alcuna evidenza che siano mai esistiti.

Il ceo Markus Braun aveva replicato sostenendo che molto probabilmente Wirecard sarebbe al centro di una “gigantesca truffa”, ma ha dovuto rassegnare le dimissioni subito dopo, sostituito ad interim da un funzionario di Deutsche Boerse, tale James Freis. Pare che le lettere che avrebbero dovuto dimostrare l’esistenza dei depositi presso Bank of the Philippine Islands e BDO Unibank fossero contraffatte. Il sospetto dei revisori è che la società abbia utilizzato le sussidiarie di Dublino e Dubai per “gonfiare” fatturato e utili, così da attirare investitori e sostenere le quotazioni in borsa.

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Tra gli azionisti troviamo fondi come Vanguard e BlackRock, mentre altri come Dws e Union Investments hanno annunciato che intendono fare causa a Wirecard. E per la società esiste il serio rischio di perdere immediatamente 2 miliardi di linee di credito. Tra le banche che avevano scommesso sul gigante della fintech e che risultano adesso esposte abbiamo Citigroup, Commerzbank, Credit Agricole, Deutsche Bank, DZ Bank, ING e Raiffeisen Bank. Tutti apparentemente vittime di una truffa tanto grande, quanto pacchiana, se è vero che di sospetti soldi falsi se ne discutesse apertamente da quasi un anno e mezzo, cioè da quando nel gennaio del 2019 niente di meno che il Financial Times aveva pubblicato un articolo, nel quale denunciava presunte irregolarità contabili di Wirecard, attraverso le sussidiarie in Asia, Singapore inclusa.

Flop dei controlli tedeschi

Per tutta risposta, anziché cercare di fare luce, la BaFin, la Consob tedesca, aveva avviato indagini a carico del quotidiano finanziario britannico per “manipolazione del mercato”. Inoltre, aveva persino disposto il divieto di vendita delle azioni allo scoperto. E già una decina di anni fa il governo tedesco aveva fatto quadrato attorno a Wirecard, quando alcuni fondi avevano speculato al ribasso sulle sue azioni. Stavolta, invece, i “short sellers” hanno avuto la meglio e con ogni probabilità continueranno a maturare profitti, se è vero che il 10% del capitale della tedesca risulterebbe oggetto di scommesse al ribasso.

Wirecard: il divieto di short selling ha ragion d’essere?

Si stima che pochi “hedge funds” avrebbero incassato qualcosa come 1 miliardo di dollari in pochi giorni tra pochi clienti, avendo scommesso contro le azioni Wirecard. I “credit default swaps” costavano 73 punti base al termine della settimana scorsa, quando a fine maggio nemmeno arrivavano a 20. In sostanza, gli obbligazionisti sono corsi già a proteggersi contro il rischio di fallimento dell’emittente, facendo guadagnare quanti avessero acquistato questi titoli assicurativi a scopo puramente speculativo nelle settimane precedenti.

Scommessa vincente di una 29-enne

Tra i fondi che hanno fatto una fortuna con lo “short selling” delle azioni Wirecard c’è Safkhet Capital Management, che ha sede a New York e gestito da Fahmir Quadir, una giovane donna di 29 anni, adesso diventata una sorta di leggenda tra i traders internazionali. Peraltro, ella detiene una quota del 25% dello stesso fondo, per cui ha tratto direttamente beneficio dalla vittoria della scommessa contro le azioni Wirecard.

In totale, dovrebbero essere stati per decine di milioni di dollari i guadagni messi a segno grazie all’operazione.

Short selling, cos’è e rischi e opportunità di una strategia ribassista

La vicenda mette a nudo alcune criticità del sistema finanziario-istituzionale tedesco. Controlli tardivi, anzitutto, con la BaFin che ha aperto ufficialmente un’indagine a carico della società solo il 5 giugno scorso, giorno in cui inviava i suoi ispettori presso la sede in Germania. Le autorità, però, avevano fatto quadrato attorno a quello che ritenevano essere un orgoglio nazionale da tutelare contro la finanza straniera, ostentando così ottusità e opacità. Non a caso, alcuni commentatori hanno definito il caso come una sorta di Enron o Parmalat. In effetti, siamo agli stessi livelli di frode del mercato, compiacenza dei controllori e imbarazzo politico.

Wirecard nacque nel 1999 come società di gestione dei pagamenti elettronici e fino ai primi anni Duemila aveva pochi dipendenti e clienti, questi ultimi perlopiù attivi nel gioco d’azzardo online e nel comparto erotico. La svolta si ebbe nel 2005, quando diede vita a una fusione inversa con Infogenie. Nell’ultimo decennio, il boom in borsa fino ad arrivare al successo nel 2018, quando il titolo entrò a far parte del Dax, il principale indice azionario tedesco, prendendo il posto di Commerzbank. Allora, la società arrivò a capitalizzare sui 24 miliardi di euro. Adesso, la sopravvivenza è legata alla permanenza nel capitale dei fondi internazionali, ai quali si prospetta la dura scelta tra cercare di mettere una pezza con una maxi-purga tra i dirigenti, al fine di tutelare il capitale investito, oppure uscire del tutto dall’affare per salvare faccia e reputazione tra i clienti. Di certo c’è che siano stati inventati quasi 2 miliardi di liquidità inesistente, senza che nessuno tra le autorità tedesche abbia sentito il dovere di fare luce sulle denunce degli ultimi 18 mesi.

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