Abbiamo sentito spesso utilizzare nel mondo finanziario espressioni come “investire long” o “investire short”, o anche “andare lungo” o “andare corto” su un titolo. Ma vi siete mai chiesti cosa significano? Vi spieghiamo adesso in maniera sintetica e semplice quando e come avvengono le strategie “lunghe” e quando e come si utilizzano quelle “corte”. Un investimento “long” si ha, quando chi lo effettua ha una posizione rialzista su uno strumento finanziario. E’ forse la forma di investimento più comunemente nota ai non addetti ai lavori, anche perché è semplice da comprendere.

Un investitore è rialzista, quando punta sul rialzo del prezzo di un titolo, al fine di rivenderlo a un valore superiore rispetto a quello di acquisto, realizzando così una plusvalenza. Esempio: compro 1.000 azioni di una società X a 1 euro ciascuna e scommetto su un loro aumento di prezzo. Ipotizziamo che dopo 2 mesi, tali azioni valgano 1,20 euro ciascuna. L’investitore le rivenderà, se ritiene che non si verificherà alcun ulteriore aumento o se decide di accontentarsi del margine registrato, incassando così 1.200 euro, 200 in più di quanto speso per acquistarle.

Scommettere al ribasso, come funziona

In pochi sanno, però, che si possono fare affari, anche quando il corso di un titolo scende. Sembra un po’ complicato ragionare al contrario, ma tant’è. Si definisce investimento “short”, quello fondato sulla scommessa al ribasso di uno strumento finanziario. In pratica, l’investitore qui ritiene che un certo titolo sia sopravvalutato e spera di ottenere un profitto proprio dal presumibile calo del suo prezzo. Ma come riuscirà a guadagnarci sopra? Immaginiamo che il titolo di una società quotata valga oggi 1 euro e che un investitore, analizzando i suoi fondamentali, crede che sia destinato a scendere di prezzo. Pur in assenza della disponibilità materiale delle azioni della società, egli decide di venderne 1.000 ai prezzi di mercato, facendosele prestare da un broker (banca, altro intermediario), il quale pretenderà un certo tasso d’interesse, qualora l’operazione non si concluda in giornata, oltre alla commissione.

In questo modo, l’investitore incassa subito 1.000 euro, nella speranza di riacquistare la stessa quantità di titoli da riconsegnare al broker, ma a un prezzo inferiore. Se, per ipotesi, dopo un mese il corso delle azioni è sceso a 0,80 euro, l’investitore acquista sul mercato i 1.000 titoli per 800 euro (0,80 x 1000), realizzando un profitto di 200 euro, frutto della differenza tra quanto incassato e quanto speso successivamente. A tale profitto, però, andrà sottratto l’interesse dovuto al broker, che ha prestato non liquidità, bensì strumenti finanziari. Come avrete notato, in questo caso viene prima l’incasso e dopo la spesa.   [tweet_box design=”box_09″ float=”none”] Short selling non è il demonio della finanza, precede la realtà   [/tweet_box]      

Lo short selling può anche essere “nudo”

L’operazione di riacquisto di un titolo si definisce in gergo anche “ricopertura tecnica”. Le ricoperture, quando avvengono in dimensioni tali da influire sui corsi, determinano spesso una risalita dei prezzi di uno strumento finanziario, che i non addetti ai lavori tendono a confondere a volte con un’inversione del trend del mercato. In realtà, accade semplicemente, che quando si concentrano in breve tempo acquisti per ricoprirsi, in relazione a un investimento “short” effettuato da una moltitudine di traders, per effetto della maggiore domanda il corso del titolo in oggetto sale, salvo ridiscendere successivamente. Fin qui vi abbiamo mostrato come funziona lo “short selling”, ossia la vendita allo scoperto di un titolo assistito dalla disponibilità materiale, per quanto attraverso un prestito. Ma questa operazione può realizzarsi anche in modalità “naked” o “nuda”, ovvero senza che l’investitore disponga degli strumenti finanziari ceduti, che acquisterà o si farà prestare anche un attimo prima della chiusura dell’operazione stessa.

La vendita allo scoperto viene spesso demonizzata dalla stampa, specie quella non specialistica, che la ritiene un male, fonte di speculazione e di perdite per il mercato. In realtà, essa non rappresenta una novità dei nostri giorni, ma esiste da ben 400 anni e presenta alcuni benefici da non sottovalutare. Per prima cosa, consente al mercato di funzionare anche nelle fasi calanti. Immaginate che un titolo o un intero listino registri perdite. Se tutti scommettessero al rialzo, si avrebbe una paralisi; nessuno si muoverebbe e si creerebbe una situazione di illiquidità, di scambi refrattari e di perdite potenziali ancora più grosse.        

Norme europee limitano lo short selling

Secondariamente, lo “short selling” è sì una scommessa al ribasso, ma come quella rialzista è basata sullo studio dei fondamentali. Non avrebbe senso scommettere al ribasso i miei soldi sul titolo di una società, che macina profitti sempre più elevati, anche in rapporto al suo valore di capitalizzazione in borsa. Quando si scommette al ribasso è perché si ha la presumibile convinzione che quel titolo sia sopravvalutato per una qualche ragione. E le posizioni nette corte e quelle nette lunghe permettono al mercato di capire quale sia la valutazione in una data fase degli investitori su un titolo. Esempio: se aumentano le posizioni nette corte sul future per il Brent, mentre diminuiscono quelle nette lunghe, significa che gli investitori stanno abbassando le loro previsioni sui prezzi del greggio, scommettendo al ribasso. Ciò consentirà al resto del mercato di muoversi di conseguenza, evitando all’una e all’altra parte di rimanere scottata per un andamento futuro inatteso delle quotazioni. Eppure, la stessa legislazione europea ha limitato la possibilità di ricorrere allo “short selling”, normandolo con la Regolamentazione UE 236/2012, in vigore dall’1 novembre del 2012. Essa prevede tra le altre cose il divieto di effettuare investimenti corti “nudi” sui titoli di stato e sui cds su emittenti sovrani, nonché l’obbligo di comunicare le posizioni nette corte alle autorità di vigilanza, qualora esse ammontino ad almeno lo 0,2% del capitale della società quotata emittente o quando esse siano pari ad almeno lo 0,5% del proprio capitale sociale.

     

I rischi degli investitori ribassisti

Certo, va anche detto che l’investimento allo scoperto non è scevro da alti rischi. Chi scommette al rialzo, infatti, può perdere potenzialmente fino al 100% del capitale investito, non di più. Esempio: compro 1.000 azioni di una società a 1 euro ciascuna, per cui spendo 1.000 euro. Scommetto su un loro rialzo, mentre a causa di un evento inatteso, il loro prezzo si azzera. Avrò perso l’intero capitale. Chi scommette corto, invece, rischia perdite potenzialmente illimitate, derivanti dall’andamento opposto dei prezzi rispetto alla direzione desiderata. Esempio: compro 1.000 azioni di una società a 1 euro ciascuna, scommettendo su un loro ribasso. Tuttavia, contrariamente alle previsioni, il titolo esplode in borsa e sale, poniamo, a 10 euro. La mia spesa sarà pari a 10.000 euro (1o x 1.000), per cui la perdita sarà 10 volte più alta del capitale investito, ma potrebbe persino essere illimitatamente più alta, nel senso che, a differenza di una posizione rialzista, non si è in grado di conoscere con anticipo la perdita massima sostenibile. In realtà, gli strumenti di “stop loss” consentono anche allo “short seller” di impostare un tetto massimo alle perdite.