Per il quarto anno consecutivo, la Germania ha chiuso il 2019 con il più alto surplus delle partite correnti nel mondo, pari a 261,1 miliardi di euro, nettamente superiore ai 194 miliardi di dollari riportati dal Giappone. Le partite correnti captano la somma tra l’import/export commerciale e quello di natura finanziaria, per cui i suoi saldi sono frutto dell’interscambio con l’estero di beni, servizi e capitali. Il dato tedesco segnala, quindi, che la Germania nel 2019 ha esportato complessivamente all’estero il 7,6% del suo pil in più di quanto abbia importato.

E dal 2011, supera costantemente la soglia del 6%, che secondo le regole europee introdotte nel 2011 dovrebbe essere il limite massimo per un triennio consecutivo consentito a uno stato dell’Eurozona.

Tuttavia, questa regola non è perentoria come quella sul deficit fiscale al 3%. Resta il fatto che la Commissione europea da un lato, la BCE dall’altro e sempre più spesso il Fondo Monetario Internazionale invitano Berlino ad allentare la politica fiscale per contribuire alla crescita dell’Eurozona. Infatti, un’economia che esporta “troppo” sottrae ricchezza ai partner dell’area, i cui tassi di cambio contro la Germania sono fermi dal 1999, essendo l’euro la moneta comune da allora e non potendo così facilmente recuperare competitività.

I record tedeschi appaiono impressionanti, se si allarga l’orizzonte temporale di analisi. Da quando è esplosa la crisi finanziaria globale nel 2009, la Germania ha accumulato surplus correnti per un totale di oltre 2.350 miliardi di euro, pari alla media annua del 7,2% del suo pil. L’apice fu toccato nel biennio 2015/2016 con l’8,6%, da allora gli avanzi hanno subito un freno, ma restando sempre altissimi. Dicevamo che le partite correnti includono la bilancia commerciale e quella dei pagamenti. La prima ha esitato nel periodo considerato surplus per circa 2.265 miliardi, praticamente circa il 96% del totale, la media del 6,9% del pil.

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Bassi consumi e alti risparmi

Ne consegue che gli afflussi netti di capitali tra la fine del 2008 e il dicembre scorso in Germania abbiano ammontato a oltre 85 miliardi, rappresentando la media annuale dello 0,3% rispetto al pil. Una vera macchina da guerra sul fronte dell’export e dell’attrattività sul piano finanziario, sostenuta da una politica fiscale restrittiva, con surplus di bilancio generati sin dal 2014, tant’è che negli undici anni esaminati sono stati complessivamente pari a circa 13 miliardi. In altre parole, lo stato tedesco (governo federale, Laender e comuni) spende meno di quanto incassa, deprimendo i consumi interni. Non a caso, le famiglie tedesche contribuiscono al pil per circa il 52%, molto meno del 69% negli USA o del 58-59% in Italia.

I bassi consumi interni tengono basse le importazioni e generano avanzi della bilancia commerciale, al contempo mantenendo sotto controllo anche i livelli di indebitamento privati, esitando risparmi relativamente elevati. A loro volta, i surplus fiscali incrementano la fiducia degli investitori sulla solidità del debito sovrano e attirano investimenti. E così, la Germania esporta beni e servizi in quantità nettamente superiore a quanto importa, riuscendo altresì ad attirare capitali esteri più di quanti non ne defluiscano. E dire che i bassissimi rendimenti di questi anni, negativi ormai fino alle lunghissime scadenze, giustificherebbero un racconto diverso, cioè di risparmiatori tedeschi in fuga verso l’estero a caccia di “yield”. La fiducia verso la solidità del sistema tedesco, però, prevale su ogni altra considerazione.

La Germania dei surplus non frena, è boom per l’attivo dei conti pubblici

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