Il sottosegretario all’Economia, Pier Paolo Baretta, ipotizza il riscatto degli anni di laurea gratuito e a carico dello stato per i giovani nati dal 1980 al 2000 e che non siano stati fuori corso. Sono allo studio diverse possibili soluzioni, tra cui quella per cui a versare i contributi per gli anni riscattati sarebbe lo stato con una quota fissa, in modo da compensare quanti abbiano iniziato a lavorare dopo il 31 dicembre 2015, i quali andranno un giorno in pensione completamente con il metodo contributivo.

Una penalizzazione, rispetto alle precedenti generazioni, che rischia di creare sperequazioni tra l’oggi e il domani e di portare a future tensioni sociali, specie perché le carriere lavorative dei giovani di oggi risultano spesso discontinue e, pertanto, calcolando il loro assegno tra alcuni decenni solamente sui contributi versati, il rischio è che molti non arrivino a percepire nemmeno quello che oggi sarebbe l’importo minimo. (Leggi anche: Riscatto laurea gratis? Ecco da quando)

Sì, perché con il metodo contributivo non vi sarà più l’integrazione al minimo, ovvero quella erogazione da parte dello stato della differenza tra l’assegno a cui avrebbe diritto il pensionato e quello minimo fissato, che oggi giorno si aggira sui 500 euro. Se un giovane di oggi dovesse andare in pensione con 370 euro di assegno mensile, sarà questo a spettargli.

Qualche giorno fa, l’Istat ha fatto presente che dal 2019, a seguito dell’adeguamento all’aumento della durata media della vita, l’età pensionabile dovrebbe salire a 67 anni, mentre nel 2050 sarebbe di 69 anni e 9 mesi. In pratica, chi fosse nato nel 1980 andrà in pensione a ridosso dei 70 anni contro i 66 anni e 7 mesi di oggi e percependo un assegno mediamente più basso.

Facciamo un esempio: su un montante contributivo di 200.000 euro, oggi un 65-enne percepirebbe con il metodo contributivo un assegno mensile di poco meno di 820 euro al mese, mentre fino al 2009 aveva diritto ancora a 944 euro.

A causa dell’abbassamento dei coefficienti di trasformazione, infatti, in appena 7 anni si è registrato un taglio dei nuovi assegni di oltre il 13%. (Leggi anche: Debito pubblico generato per due terzi dalle pensioni, futuro rubato ai giovani)

Pensioni più basse e percepite più tardi

Lavorare di più e percepire di meno è ciò che spetta le generazioni dei “Millenials”, ma anche quelli un po’ più maturi di loro. A fronte di questo trend, il riscatto gratuito degli anni di laurea va certamente nella direzione di accorciare le distanze con i padri, ma fino a un certo punto. Anzitutto, perché ormai è quasi del tutto inutile il numero degli anni di contributi per anticipare l’età pensionabile, uscendo prima dal mercato del lavoro.

A regime, dal 2049-2050 serviranno 46 anni e 3 mesi di contributi per gli uomini e 45 anni e mesi per le donne per potersi permettere di andare in pensione indipendentemente dall’età anagrafica. Si consideri, quindi, che chi dovesse entrare all’università a 19 anni, laurearsi in tempo e trovare un lavoro il giorno dopo, potrebbe andare in pensione “già” a 64-65 anni, ma a patto che non abbia mai interrotto la sua carriera lavorativa, ipotesi alquanto irreale in Italia.

Il riscatto della laurea, invece, se avvenisse con l’erogazione di contributi a carico dello stato, potrebbe servire almeno a sostenere l’assegno previdenziale. Dai 3 ai 5 anni in più di contribuzione non farebbero male, anche se difficilmente il montante lieviterà, anche per le scarse risorse di cui gode lo stato da mettere a disposizione.

Serve fuggire dall’attuale sistema fallimentare Inps

Interventi ancora tutti da verificare, ma che puntano a mettere una pezza all’atteso deterioramento delle condizioni previdenziali della generazione dei giovani di oggi, che saranno i pensionati a rischio povertà di domani.

Il punto è che nessun governo sta tentando di rivoluzionare in Italia (ma lo stesso vale nel resto d’Europa) il sistema pensionistico, limitandosi ad apportare correttivi, come l’allungamento della carriera lavorativa, l’aumento dei contributi e il taglio futuro degli assegni. Senza dinamiche demografiche positive, tuttavia, si tratta di palliativi di corto respiro.

In un altro articolo recente, vi avevamo spiegato come il sistema a ripartizione, basato sul principio della solidarietà intergenerazionale, non sia più sostenibile e come si renda urgente trovare il modo di passare nella maniera più indolore possibile al sistema a capitalizzazione, di tipo privatistico, dove l’assegno percepito è frutto solamente dei contributi versati, avendo il pregio di liberare risorse dei lavoratori, da destinare alla propria terza età.

Fino a quando, però, saremo costretti a versare una contribuzione pari a un terzo dello stipendio lordo per sostenere una previdenza fallita, poco o nulla potrà essere messo da parte con il pilastro della previdenza integrativa, condannando le attuali generazioni a un futuro di incertezze e a un presente di sacrifici. Perché sappia il governo, che un lavoratore consapevole delle proprie condizioni materiali tendenzialmente avverse durante la vecchiaia sarà meno incline a spendere e a guardare con ottimismo l’oggi, innescando il classico corto circuito, che difficilmente si potrà pensare di interrompere nei prossimi anni con l’ennesima sforbiciata degli assegni e mandando in pensione i lavoratori in punto di morte. (Leggi anche: Sistema pensionistico fallito, cosa ci insegna il modello cileno)