Il franco svizzero resta super, anzi si rafforza nelle ultime settimane, mettendo a segno un rialzo di quasi il 2% contro l’euro in un mese e del 5,5% su base annua. La valuta elvetica scambia contro la moneta unica ai massimi dall’aprile 2017, scendendo nella seduta di ieri sotto 1,07. Eppure, nei giorni scorsi il governatore della Banca Nazionale Svizzera, Thomas Jordan, dal Forum di Davos tuonava sulla necessità di mantenere i tassi negativi e confermava che il franco sarebbe “fortemente valutato” sui mercati internazionali, pur ribadendo che l’istituto non interviene per effettuare svalutazioni competitive, aggiungendo di non vedere il bisogno di imporre un nuovo cambio minimo “per il momento”.

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Sta di fatto che il franco svizzero torna ad avvicinarsi a quella barriera di 1,05, che i trader credono sia stata fissata informalmente dalla BNS dopo la fine del cambio minimo di 5 anni fa. In effetti, è dal luglio del 2015 che il cross non scende sotto tale livello e tutti immaginano che ciò sia dovuto essenzialmente agli interventi di Jordan sul mercato valutario, rispecchiati dalle variazioni dei depositi a vista delle banche. Questi sono saliti di 1,2 miliardi nell’ultimo mese e di 9,1 miliardi nell’ultimo anno. In teoria, un loro aumento dovrebbe indebolire il franco, essendo la contropartita di acquisti di valuta straniera dalla banca centrale, in cambio di valuta domestica rilasciata alle banche e che torna indietro in forma di depositi a breve.

Il franco svizzero è considerato alla stregua dell’oro un bene rifugio. La sua forza la trae non solo dall’interscambio commerciale, quanto anche e, soprattutto, dagli afflussi di capitali esteri. Non è facile, quindi, capire cosa intenda Jordan quando parla di “sopravvalutazione” del cambio. Sul piano teorico, la BNS fa riferimento alla parità di potere di acquisto, secondo cui le variazioni tra tassi di cambio dipendono dai differenziali d’inflazione.

In effetti, l’inflazione elvetica cumulata nell’ultimo quinquennio è stata di poco superiore allo zero, quella nell’Eurozona ha sfiorato il 5%. Allargando lo sguardo all’ultimo decennio, il differenziale d’inflazione cumulato salirebbe a circa il 14%.

Verso la difesa della barriera 1,05

Considerando che prima della crisi finanziaria globale, il cambio contro l’euro si attestava fin sopra 1,60, da allora il franco ha guadagnato un terzo del suo valore, cioè ben oltre il doppio di quanto giustificherebbero i differenziali d’inflazione. Il resto è dovuto ai movimenti di natura finanziaria, perlopiù speculativi. E così, i rendimenti decennali dei bond svizzeri sono crollati nel periodo dal 2% al -0,80%, segno della fame di carta elvetica tra gli investitori stranieri, ben disposti a sorbirsi perdite certe alla scadenza, pur di acquistare assets denominati in franchi. Ma Jordan li dissuaderebbe nelle prossime settimane dal continuare a puntare sullo stato alpino, “manovrando” il tasso di cambio per impedire la discesa dell’euro sotto 1,05. Quella barriera non potrà e dovrà essere toccata, perché questo foraggerebbe la voracità speculativa rialzista sui mercati, su cui negli ultimi anni non si scommette su un apprezzamento del franco sotto tale soglia, pena l’intervento della BNS per l’appunto.

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Da ultimo, il virus cinese sta contribuendo al rafforzamento della valuta elvetica, così come ogni accadimento e segnale macro che vadano nella direzione di indebolire la congiuntura globale, con riflessi sulla politica monetaria nell’Area Euro. Per quanto Jordan abbia rammentato di non essere dipendente dalle mosse della BCE, ha dovuto ammettere che deve tenere conto del contesto internazionale. E finché Francoforte non alza i tassi, l’euro rimarrà debole e Zurigo dovrà tenersi i tassi negativi o persino tagliarli ulteriormente per evitare una eventuale tendenza deflattiva dell’economia alpina.

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