Raramente vi è stata una divergenza monetaria così forte tra Federal Reserve e BCE. Questa settimana, la pubblicazione dei verbali sull’ultima riunione di Atlanta ha reso nota l’intenzione di parte del board di alzare i tassi d’interesse americani dello 0,5% a maggio. A marzo, l’istituto ha avviato la stretta con un rialzo dello 0,25%. Non è tutto. A regime, cioè nel giro di 3-4 mesi al massimo, la FED punta a vendere bond a bilancio per il controvalore di 95 miliardi di dollari al mese.

A seguito di tale pubblicazione, il Treasury a 10 anni è volato nei pressi del 2,6%, mentre l’indice Dow Jones reagiva mercoledì con un calo dello 0,4%.

Contro l’inflazione la FED ha deciso di correre dopo mesi di tentennamenti. Schizzata quasi all’8% negli USA, ha “surriscaldato” fin troppo le aspettative di medio-lungo termine. Tuttavia, queste hanno iniziato a stabilizzarsi, se non a “raffreddarsi” un po’, grazie proprio alle ultime mosse della FED in termini di comunicazione più da “falco”. Servirà passare ai fatti per consolidare il trend. E dai verbali emergerebbe l’intenzione di farlo. Ma anche se sta velocizzando la sua risposta contro l’inflazione, di questo passo il bilancio FED tornerebbe ai livelli pre-Covid solamente tra 4 anni e mezzo.

BCE non contrasta l’inflazione

E la BCE? Giovedì, il capo-economista Philip Lane ha messo in guardia dal rischio di “reagire eccessivamente” all’inflazione di breve periodo, ricordando che l’istituto abbia il compito di guardare alle dinamiche di medio termine. Dunque, per Francoforte il rischio non è l’inflazione nell’Eurozona già salita al 7,5% a marzo. Sarebbe quello di contrastarla. A parziale sua discolpa, bisogna ammettere che la situazione sia un po’ diversa rispetto agli USA. Da noi, il boom dei prezzi al consumo è interamente dovuto ai rincari delle materie prime e ai colli di bottiglia, mentre il mercato del lavoro americano è tornato in piena occupazione.

In sostanza, l’inflazione negli USA è trainata anche dalla domanda.

La reazione all’alta inflazione da parte della BCE è consistita finora essenzialmente nel tagliare gli acquisti netti di bond nel secondo trimestre di 30 miliardi di euro e di prospettarne l’azzeramento nel terzo. Nessuno a Francoforte si azzarda ancora a parlare di rialzo dei tassi. Perché? La guerra ha accentuato di gran lunga un rischio già esistente nell’Eurozona, ossia la frammentazione dei mercati finanziari con l’avvio della stretta monetaria. Poiché ogni governo raccoglie capitali per conto proprio, man mano che il costo del denaro sale, ad essere più colpiti sono i paesi più indebitati. Gli investitori tendono a scartarli a favore dei paesi fiscalmente più virtuosi, a parità di rendimento.

In sintesi, con il rialzo dei tassi sale lo spread. Sta accadendo già da mesi in previsione di ciò e se la BCE si mostrasse più restrittiva in funzione anti-inflazione, esploderebbe a livelli ancora più alti. Christine Lagarde e il suo board temono che così la crescita dell’economia nel Sud Europa ne risulterebbe del tutto spenta e che tornerebbe la tempesta ai danni dell’euro. Senonché l’alta inflazione stessa rischia di devastare l’economia in tutta l’area, contraendo i consumi e la stessa produzione. Come uscirne? Il consigliere esecutivo della BCE, Fabio Panetta, propone gli eurobond per fronteggiare i costi della guerra.

Frugali contro spendaccioni

L’ipotesi era ventilata il mese scorso, dopodiché non se n’è più parlato per l’opposizione mostrata dal Nord Europa al vertice di Versailles. Olanda e Svezia, in particolare, non vogliono indebitarsi in comune con paesi come Italia, Spagna e la stessa Francia, considerate “spendaccione”. Peraltro, c’è una questione di costi alla base. Nei giorni scorsi, la Commissione UE ha emesso un secondo green bond per finanziare il Next Generation EU, della durata di 20 anni con rendimento a 1,33%.

La Germania paga su questa scadenza meno della metà, l’Italia quasi il doppio. Dunque, eurobond significa essenzialmente redistribuzione dei costi a favore del Sud Europa e ai danni del Nord.

La Germania è a un bivio: accettare il costo dell’inflazione o quello di emissioni comuni dei debiti. Pensare che la BCE possa seguire la FED senza compensazioni sul fronte fiscale non sembra un’opzione molto realistica. Comporta il rischio di rimettere in discussione l’euro. E nessuno vorrebbe tornare agli anni delle tensioni finanziarie, che hanno portato l’area sull’orlo della rottura. La BCE da sola non può agire, le serve un accordo fiscale a Bruxelles tra i governi. Non basta prorogare la sospensione del Patto di stabilità o prospettare, come hanno fatto Olanda e Spagna, misure ad hoc per ciascun paese. Per superare il rischio di frammentazione servono emissioni comuni in stile Recovery Fund. Berlino resiste. Fino a quando?

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