L’inflazione nell’Eurozona a marzo è salita al 7,5%, segnando il nuovo massimo storico per l’area. Persino il dato “core”, al netto della componente energetica e dei generi alimentari, registra una ulteriore crescita al 3% dal 2,7% di febbraio. Il libro delle scuse per la BCE è finito. Non esiste alcuna ragione logica per non alzare i tassi d’interesse. L’inflazione nell’unione monetaria è ormai a quasi quattro volte il target del 2%. Ignorare la realtà farà malissimo all’economia e rischia di deteriorare la stessa reputazione di Francoforte.

La linea ufficiale del governatore Christine Lagarde e del suo board è la seguente: l’inflazione è grosso modo temporanea, per quanto si stia rivelando più duratura delle precedenti previsioni. Alzare i tassi BCE avrebbe scarsa efficacia, dato che non inciderebbe sulle cause, cioè i rincari delle materie prime e i colli di bottiglia.

Il precedente negativo degli anni Settanta

Questo ragionamento è un azzardo. Anche negli anni Settanta le banche centrali ripeterono il ritornello e rimediarono tassi d’inflazione a due cifre in Occidente. Servì l’arrivo di due statisti conservatori – Margaret Thatcher nel Regno Unito nel 1979 e Ronald Reagan negli USA nel 1981 – per cambiare politica monetaria. Il rialzo dei tassi fu drastico sotto le due amministrazioni e, guarda caso, l’inflazione si contrasse piuttosto velocemente, pur dovendo passare prima da una recessione economica a inizio anni Ottanta.

I passi prima di alzare i tassi BCE

I tassi BCE sono fermi da anni a -0,5% sui depositi delle banche, a 0 per i rifinanziamenti principali alle banche e a 0,25% per i rifinanziamenti marginali. In pratica, oggi come oggi per una banca dell’Eurozona parcheggiare liquidità a Francoforte costa in termini reali l’8% in un anno. Il mercato sconta un rialzo dei tassi ormai nell’ordine di almeno 40 punti base nel medio termine. I Bund a 2 anni offrono -0,05% a fronte di -0,65% di inizio anno.

Ma la BCE ha le mani legate dalla sua stessa “forward guidance”. All’ultimo board, ha prospettato la fine degli acquisti netti dei bond nel terzo trimestre e confermato che il rialzo dei tassi avverrà solo dopo la cessazione del programma monetario.

Tradire la parola data non è un’opzione per una banca centrale, la cui credibilità deve essere tutto. Questo significa che, nel migliore dei casi, al board del 22 aprile la BCE potrà annunciare la fine degli stimoli monetari dopo giugno. E dopodiché il rialzo dei tassi arriverebbe con ogni probabilità non prima di settembre. Dovrà passare un periodo congruo tra la fine del “quantitative easing” e l’avvio della stretta monetaria e – non meno importante – l’operazione non dovrebbe avvenire in piena estate, quando i mercati sono poco liquidi e i prezzi degli asset tendono a reagire spesso eccessivamente agli annunci di politica economica.

Lo spettro del 2011 paralizza Lagarde

In altre parole, mentre la Federal Reserve a inizio maggio dovrebbe già portare i tassi americani all’1%, la BCE sembra destinata a mantenere i tassi invariati da qui a settembre. Nel frattempo, l’inflazione sarà libera di galoppare incontrastata. Un paradosso, se si pensa che almeno la FED è vincolata al doppio mandato, per cui deve legalmente perseguire non solo la stabilità dei prezzi, ma anche la massima occupazione sul mercato del lavoro. La BCE ha come unico obiettivo di non far salire l’inflazione sopra il 2% o farla scendere sotto tale soglia. Il punto è che si trova a gestire la politica monetaria per conto di 19 economie con problemi macro spesso diversi e con il rischio di frammentare i mercati nell’area come avvenne nel 2011 con l’improvvido rialzo dei tassi BCE in piena crisi dei debiti sovrani. Francoforte è paralizzata dal suo passato recente e, per paura di bissare l’errore, sta destabilizzando i prezzi al consumo, tradendo il mandato.

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