Quando si parla di crisi dell’economia italiana, in molti additano l’euro quale causa principale, sostenendo che con l’adesione all’unione monetaria sin dal 1999, il nostro paese si sia ritrovato con un cambio più forte dei suoi fondamentali. Come si fa a verificare se tale affermazioni sia più o meno veritiera?

In economia, un metodo molto utilizzato, per quanto a volte ritenuto semplicistico, è quello della PPP (“Purchasing Power Parity”), ovvero nel confrontare le variazioni dei tassi di cambio in un dato periodo con quelle dell’inflazione registrate nei due paesi nel medesimo arco di tempo.

Alla base di questo calcolo c’è l’evidenza che un’economia con crescita dei prezzi maggiore di un’altra dovrebbe subire un indebolimento del cambio, in quanto i suoi beni e servizi diverrebbero meno competitivi sui mercati internazionali, per cui esporterebbe di meno.

Cambio euro-dollaro è alto per Italia?

Il cambio fondamentale a cui oggi facciamo riferimento è quello tra euro e dollaro, da tempo oscillante intorno a 1,10. Considerando che la lira italiana non è più nelle nostre tasche da oltre 14 anni e che sin dall’1 gennaio del 1999 è agganciata alla moneta unica a un cambio fisso di 1,936,27, è come se attualmente servissero circa 1.760 lire per un dollaro.

Domanda: è poco, è tanto o è giusto? Applicando il metodo della PPP, scopriamo che dal 1999 alla fine del 2015, gli USA hanno registrato un’inflazione cumulata di oltre il 45%, mentre l’Italia di meno del 33%. Da queste cifre, si dovrebbe desumere che il cambio tra lira e dollaro si sarebbe dovuto rafforzare mediamente di più del 10% rispetto al 1998, mentre a conti fatti, è come se oggi la lira avesse perso in questi 18 anni poco più dell’1% contro il biglietto verde. Mediamente, infatti, nell’ultimo anno di fluttuazione libera prima dell’aggancio all’euro, il cambio con il dollaro fu di 1.736 lire.

Pertanto, la lira sarebbe oggi formalmente sottovalutata contro la divisa americana di una decina di punti percentuali.

Al contrario, sarebbe un po’ sopravvalutata (di poco) contro il marco tedesco, visto che la Germania ha registrato negli stessi anni un’inflazione cumulata di circa il 4% in meno alla nostra.

 

 

 

Esportazioni italiane cresciute, ma importazioni di più

Da queste cifre dovremmo dedurre, quindi, che alla base della nostra crisi non ci sarebbe una scarsa competitività, o meglio, che questa non sarebbe provocata dall’euro. Per capire meglio cosa sia accaduto alla nostra economia, dobbiamo guardare al grafico della bilancia commerciale.

Dal 1998 ad oggi, le esportazioni italiane in valore sono aumentate del 120%, un dato particolarmente positivo, almeno all’apparenza. Peccato, però, che su questi primi 17 anni di euro, il nostro paese abbia chiuso negativamente la sua bilancia commerciale in 9, ovvero per la maggior parte del tempo. Questo, perché le importazioni sono aumentate di più di quanto non siano cresciute le esportazioni.

Euro non è il problema dell’Italia

E da chi importiamo maggiormente? Nell’ordine, Germania (15%), Francia (8,5%), Cina (7,1%), Olanda (5,9%), Russia (4,9%), Spagna (4,7%), Belgio (4,4%), etc. Attenzione, però, perché nel 1998, le importazioni erano così ripartite: Germania (18,8%), Francia (13,2%), Asia Orientale e Pacifico (7,9%), Regno Unito (6,4%), Olanda (6,2%), Medio Oriente e Nord Africa (5,9%), USA (5%), etc.

Contrariamente alla convinzione diffusa, quindi, l’euro non ha spinto gli italiani a comprare più merci tedesche, ma la quota delle importazioni dalla Germania si è, addirittura, ridotto. E’ crollata quella dalla Francia, mentre gli acquisti dalla Cina sono chiaramente esplosi con l’ingresso di Pechino nel WTO nel 2001. Per il resto, variazioni minime, che non giustificano le accuse contro la moneta unica. E’ come se l’Italia avesse perso competitività in maniera generalizzata, senza che il cambio abbia influito granché.