Si terranno da oggi a martedì 12 dicembre le elezioni in Egitto per scegliere il nuovo presidente. I candidati in corsa sono quattro, ma è l’uscente Abdel Fattah Al Sisi il super favorito per ottenere il terzo mandato. In carica da dieci anni, affronta il voto in un momento difficilissimo per l’economia nazionale e nel bel mezzo di una guerra tra la confinante Israele e Hamas che praticamente avviene a ridosso del suo territorio, nella famosa Striscia di Gaza.

Elezioni Egitto e dopo austerità e svalutazione

Gli aventi diritto sono 63 milioni su una popolazione di oltre 100 milioni di abitanti.

Questo è lo stato arabo più popoloso e anche strategico per gli equilibri in Medio Oriente. Le elezioni in Egitto si sarebbero dovute tenere ad aprile, ma Al Sisi le ha anticipate. La ragione di questa mossa risiederebbe nella necessità di mettere in atto il prima possibile le misure di austerità per fronteggiare la grave crisi fiscale in corso. Il voto gli darebbe anche il mandato per implementare misure considerate altamente impopolari.

La prima che dovrebbe essere attuata sarà la svalutazione del cambio. Ufficialmente servono 31 lire egiziane per un dollaro, ma al mercato nero ne occorrono 50. Questo disallineamento tra cambio ufficiale e mercato intacca le riserve valutarie di soli 35,5 miliardi di dollari. E il paese nordafricano non se lo può permettere. Il debito estero a breve termine ammonta a 28 miliardi di dollari e la bilancia commerciale resta in passivo. Dunque, la valuta estera defluisce e quella che resta in cassa basterebbe appena per pagare i debiti in scadenza. Senza svalutazione si scatenerebbe una grave crisi della bilancia dei pagamenti.

La carta di Al Sisi per ottenere nuovi prestiti

Ma la svalutazione ha un effetto collaterale grave: l’inflazione. E’ già al 36% e gli analisti scommettono che salirà ancora per via dell’indebolimento del cambio.

Il Fondo Monetario Internazionale (FMI) aveva stanziato 3 miliardi di dollari a favore dell’Egitto, ma non ha sborsato alcunché per le resistenze di Al Sisi nell’implementare le misure richieste. In particolare, il presidente non vuole privatizzare gli asset statali, né allentare la presa dei militari sull’economia e ad oggi non ha svalutato il cambio del tutto.

Ora che è scoppiata la guerra tra Israele e Hamas, l’Egitto è diventato ancora più strategico. Non solo è un mediatore tra le parti, ma il suo assenso resta imprescindibile per consentire alle organizzazioni internazionali di entrare a Gaza per fornire aiuti alla popolazione civile. E da due mesi i paesi occidentali chiedono ad Al Sisi di far entrare i profughi palestinesi nel suo paese, sentendosi replicare picche. Il presidente vuole giocarsi la carta del baratto: sì agli aiuti in cambio di un alleggerimento del debito estero o di esborsi dell’FMI.

Boom del debito estero nell’ultimo decennio

Da quando è al governo del paese, l’ex militare ha quadruplicato le emissioni di debito estero. Questo è servito essenzialmente a finanziare la costruzione di opere faraoniche, tra cui una nuova capitale amministrativa, alcune delle quali, va riconosciuto, al fine di potenziare la crescita economica nel lungo periodo. Secondo gli osservatori, questi piani saranno ridimensionati dopo le elezioni in Egitto. I cittadini saranno raggiunti da misure di austerità per rimettere i conti in sesto.

Il debito pubblico dovrebbe esplodere al 97% del PIL dall’87% dello scorso anno. Le agenzie di rating gli riservano giudizi pessimi: B- per S&P e Caa1 per Moody’s, rispettivamente sesto e settimo gradino nell’area “non investment grade” o “spazzatura”. Il default dell’Egitto non serve a nessuno. Pochi giorni fa, gli Emirati Arabi Uniti hanno esteso di tre anni un prestito di 1 miliardo in forma di deposito presso la Banca Centrale Egiziana.

In totale, i paesi arabi hanno depositato in essa 15,4 miliardi, quasi la metà delle riserve valutarie complessive.

Al Sisi baluardo contro islamismo

Se Il Cairo è un alleato dell’Occidente, d’altra parte è considerato dalle monarchie sunnite del Golfo Persico un baluardo contro i movimenti islamisti. Qui, i Fratelli Mussulmani avevano riportato una vittoria storica alle prime elezioni libere dopo la caduta del regime di Hosni Mubarak. Il presidente Mohamed Morsi indispose subito la popolazione con una politica restrittiva delle libertà civili e religiose.

Il colpo di stato ordito da Al Sisi, suo ministro della Difesa, ha riportato la calma in un paese che era scivolato nel caos e nelle violenze di piazza. La tutela delle minoranze è andata di pari passo alla restrizione della libertà di espressione. Il presidente puntava e punta tuttora sullo sviluppo economico per giustificare l’ondata repressiva agli occhi dei cittadini. Ecco perché questa crisi, che dura ormai da anni, rischia di delegittimarlo, indipendentemente dal risultato elettorale. Ecco perché dopo il voto Al Sisi si affretterebbe a riprendere in mano il dossier delle riforme. Senza un miglioramento delle condizioni di vita di oltre 100 milioni di persone, il rischio di una nuova ondata di proteste tornerebbe in auge. Il 2011 è un ricordo ancora fervido nella memoria nazionale.

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