Il presidente francese Emmanuel Macron è stato il primo capo di stato straniero ad avere messo piede a Beirut dopo le due tragiche esplosioni di martedì, che hanno devastato la capitale. Del resto, il Libano fu una colonia di Parigi fino al 1943. Ed è stato molto chiaro, quando ha dichiarato che al paese serve “un nuovo ordine politico” e che gli aiuti saranno disponibili, a patto che i leader si mettano in testa di fare le riforme. Macron ha altresì invocato un’indagine per accertare le cause delle esplosioni, così come controlli sulla banca centrale, altrimenti “tra pochi mesi non ci saranno più importazioni e scarseggeranno viveri e carburante”.

Il Libano vive il suo momento più drammatico da decenni. La distruzione materiale è arrivata nel bel mezzo di una crisi economica, finanziaria, sociale e politica già gravissima. Inflazione al 90%, disoccupazione al 25%, cambio a -80% in pochi mesi, conti correnti bloccati e dollari che scarseggiano, rendendo sempre più difficoltose le importazioni. E il paese è in default da marzo, ma non ha ancora né chiesto ufficialmente, né ricevuto aiuti internazionali. L’Iran, suo protettore, non è oggi nelle condizioni nemmeno di pensare per sé stesso, l’Arabia Saudita non ci pensa nemmeno, dato che al governo ci sono gli sciiti filo-iraniani di Hezbollah, organizzazione considerata terroristica da Unione Europea, USA e Israele, oltre che dalla stessa Lega Araba.

Libano, il gigantesco schema Ponzi che ha distrutto Beirut prima dell’esplosione

Il fattore Hezbollah

Ecco, il problema sta tutto qua. Nessun organismo internazionale e nessuno stato straniero di peso invierà aiuti cospicui a Beirut, se al potere resterà Hezbollah. Sarebbe come finanziare un nemico giurato di Israele, nonché una minaccia per la sicurezza internazionale. E a sua volta, l’organizzazione paramilitare non ha alcuna intenzione di accettare aiuti dall’estero, specie dal Fondo Monetario Internazionale, dato che verrebbero erogati dietro la presentazione di un’agenda riformatrice.

Le riforme, invocate nei giorni scorsi dallo stesso Macron, risulterebbero impopolari all’impatto, contemplando certamente la svalutazione ufficiale del cambio, il taglio dei sussidi e della spesa pubblica improduttiva, una ventata di liberalizzazioni e privatizzazioni. E se c’è una cosa che nessuna delle fazioni in gioco vuole permettersi in questa fase è proprio di risultare impopolare, regalando consensi alla fazione religiosa e politica avversaria.

Dunque, paradossalmente Hezbollah al governo resta un grosso ostacolo all’arrivo di aiuti internazionali, ma allo stesso tempo serve agli altri partiti per evitare di rafforzarne i consensi, nel caso in cui dalle file dell’opposizione si mettesse a capo della protesta contro le riforme, pur necessarie. La stessa popolazione è sfiduciata, tant’è che diversi libanesi hanno gridato a Macron, nel corso della sua visita, di non dare soldi al loro governo “corrotto” e “inefficiente”. Proprio contro la corruzione e la cattiva gestione dell’economia erano scesi in piazza nell’autunno scorso, provocando le dimissioni del premier Saad Hariri, sostenuto dall’Occidente, forse inconsapevoli che avrebbero così funto da detonatore per lo scoppio della crisi violenta di questi mesi. La miccia fu la fuga dei capitali.

La “venezuelizzazione” del Libano, d’altra parte, non gioverebbe a nessuno. Il Paese dei cedri è l’unico nel mondo arabo a possedere democrazia solida e una diffusa libertà di opinione. Una mosca bianca nel Medio Oriente, assieme al vicino Israele, che rischia di essere risucchiata dalle tensioni nell’area, le quali tra l’altro hanno già devastato la Siria nell’ultimo decennio, grande amico di Beirut e da dove affluivano copiosi i dollari fino a meno di un anno fa. Serve che Hezbollah non metta le mani sugli aiuti, che sia fuori dal governo e al contempo che non si rafforzi stando all’opposizione in una congiuntura che si annuncia molto difficile per il popolo libanese.

Un rebus.

La crisi del Libano somiglia sempre più a quella del Venezuela

[email protected]