Quando a inizio settimana, il governatore della BCE, Mario Draghi, ha dichiarato da Sintra, località del Portogallo vicina alla capitale Lisbona, che si tiene pronto a tagliare ancora i tassi e a riattivare il “quantitative easing”, i primi a restare sorpresi, per non dire a bocca aperta, sono stati i componenti dello stesso board, cioè i governatori delle banche centrali dell’Eurozona e i consiglieri esecutivi, questi ultimi suoi più stretti collaboratori. “Super Mario” si è fatto una fama di uomo combattivo, disposto ad azioni forti pur di centrare gli obiettivi, ma prudente nei toni e nello stesso comportamento.

Una volta tanto, non lo è stato. Relax di fine mandato?

Dietro a questa svolta, che ha mandato il presidente Donald Trump su tutte le furie, vi sarebbero una strategia volta agli equilibri interni e un’altra con motivazioni più immediatamente economiche. Iniziamo da queste ultime. Anticipando la Federal Reserve, ha ottenuto come risultato che il cambio euro-dollaro, che la scorsa settimana aveva superato 1,13, stia evitando di apprezzarsi, restando confinato sotto tale soglia. Un rafforzamento dell’euro contro la principale valuta mondiale avrebbe implicazioni negative sia per l’export dell’Eurozona, sia per l’inflazione stessa, che si allontanerebbe ulteriormente dal target di poco inferiore al 2%.

Lo stesso Draghi ha spiegato che la lezione del 2008 è servita per capire che le banche centrali non possano muoversi in ritardo. E si è tolto un sassolino dalla scarpa, quando ha dichiarato che “quando le banche centrali non hanno appoggiato le decisioni del Consiglio direttivo, hanno alimentato il populismo”. A chi era rivolta la critica? Senza ombra di dubbio alla Bundesbank, sua fiera oppositrice in questi 8 anni. E, però, proprio in questi giorni il suo governatore Jens Weidmann ha riconosciuto la validità del piano anti-spread messo a punto da Draghi nel 2012 (il cosiddetto OMT), facendo “mea culpa” sull’assenza di basi legali per contrastarlo.

No, Weidmann non ha riconosciuto per la BCE il ruolo di prestatore di ultima istanza

L’astuzia di Draghi sui tempi

In realtà, l’italiano ha sfruttato una finestra temporale preziosa per mettere le mani avanti sulla politica monetaria. Sa che fino al giorno in cui i capi di stato e di governo dell’area individueranno il suo successore, nessuno tra i governatori del board oserà criticarlo, volendo evitare di bruciarsi per la corsa alla presidenza della BCE. Lo stesso Weidmann si morde le labbra, consapevole che se dicesse una sola parola contro Draghi, perderebbe in un solo colpo l’appoggio degli stati del Sud Europa.

E tracciando il solco entro cui la BCE dovrà muoversi nei prossimi mesi, nei fatti il governatore ha ipotecato almeno i primi passi del suo successore. Fosse anche il “falco” tedesco, non potrebbe permettersi di svoltare a U su tassi e QE, altrimenti la politica monetaria diverrebbe erratica, poco credibile e, in ultima analisi, inefficace. Se vogliamo, quello di Draghi è stato uno sgambetto al possibile successore del Nord Europa, nonché una rassicurazione per le economie più deboli dell’area, tra cui l’Italia, meno capaci di assorbire l’avvio a breve della stretta. Nel migliore dei casi (per lui), un Weidmann governatore non potrebbe alzare i tassi fino a tutta la prima metà dell’anno prossimo, se non fino a tutto il 2020.

Infine, possibile una lettura un po’ più machiavellica della mossa a sorpresa di Sintra: con l’“all in” sulla politica monetaria, ha voluto togliere ogni alibi ai governi dell’area. Adesso, tutti hanno consapevolezza che la BCE stia facendo il massimo del massimo per sostenere l’inflazione e la ripresa dell’economia, mentre il supporto della politica fiscale negli stati con spazi di manovra disponibili semplicemente risulta inesistente.

Non a caso, Draghi ha lanciato loro – alias, la Germania – il suo ennesimo appello dal Portogallo.

E se è vero che Trump lo prenderebbe a schiaffi per questa sua indiretta volontà di svalutare l’euro, in ultima analisi potrebbe fargli più comodo di quanto non sembri, qualora sul piano delle trattative commerciali con gli USA, la Germania fosse costretta a cedere alla Casa Bianca con la rassicurazione di minori surplus primari (più spesa pubblica e/o meno tasse), al fine di evitare dazi rovinosi sulle sue auto, mentre gli americani chiuderebbero un occhio sull’euro indebolito dagli stimoli monetari. Ed è quello a cui punterebbero sia Draghi che Trump, oltre che la quasi totalità dei governi europei.

Trump svaluta l’euro per sostenere l’inflazione e Trump è già in guerra con la Germania

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