E’ stato certamente l’evento più scioccante da molti anni a questa parte in Giappone l’uccisione dell’ex premier Shinzo Abe durante un comizio elettorale a Nara, nell’isola di Honshu. Un ex militare lo ha colpito mortamente con un colpo di fucile. L’uomo era stato il più longevo capo del governo nipponico, avendo guidato l’esecutivo tra il dicembre 2012 e il settembre 2020. Si era dimesso per motivi di salute. Peraltro, era stato premier anche tra il 2006 e il 2007, il più giovane nella storia del paese.

Ma la sua eredità politica è tutt’altro che finita. Nell’ultimo decennio, il Sol Levante ha vissuto un coacervo di misure di politica economica note con il termine di Abenomics proprio dal nome di Abe.

Dopo avere portato al successo il Partito Liberal Democratico alle elezioni politiche del 2012, l’uomo promise di portare l’economia nipponica dalle secche della stagnazione e della deflazione, la famosa “sindrome giapponese”. Il paese aveva smesso sostanzialmente di crescere agli inizi degli anni Novanta, mentre da un quarto di secolo a questa parte vede i prezzi al consumo o appena in crescita o in calo.

Le tre frecce dell’Abenomics

L’Abenomics si reggeva sulle cosiddette tre frecce: politica monetaria espansiva, investimenti pubblici e riforme economiche. In sintonia con il governatore della Banca del Giappone, Haruhiko Kuroda, questi raddoppiò il target d’inflazione al 2% e arrivò nel 2016 a portare i tassi d’interesse sottozero, iniettando sui mercati quantità enormi di liquidità. Nel frattempo, il governo destinava l’1,5% del PIL al potenziamento delle infrastrutture, ma riduceva anche i disavanzi fiscali dal 7,6% del PIL del 2012 al 3,1% del 2019. A tale fine, nel 2014 e nel 2019 aumentò le tasse, tra l’altro raddoppiando l’IVA dal 5% al 10%.

Infine, l’Abenomics cercò di liberalizzare l’economia, flessibilizzando il mercato del lavoro e abbattendo le barriere doganali spesso troppo protettive di alcuni comparti.

E i risultati? Nel settennato 2013-2019, cioè escludendo l’anno della pandemia, il tasso di crescita del PIL fu mediamente di appena lo 0,9%, mentre l’inflazione dello 0,8%. Il taglio del deficit aiutò a stabilizzare il debito pubblico, salito solo dal 226% al 236% del PIL. Nel quindicennio precedente era più che raddoppiato da sotto il 100%.

Risultati insoddisfacenti, non in politica estera

Il risultato più tangibile fu registrato in borsa. Sotto Abe, l’indice Nikkei-225 segnò un rialzo del 125%. Al contempo, lo yen si indeboliva del 18,5%. Invece, il grado di apertura dell’economia è rimasto quasi inalterato. Sommando il valore delle importazioni a quello delle esportazioni, troviamo che nel 2019 gli interscambi con il resto del mondo ammontarono al 28% del PIL, appena sopra il 27% ereditati da Abe nel 2012. In effetti, categorie come i pescatori hanno opposto negli anni strenua resistenza alle liberalizzazioni dell’Abenomics. E i consumi hanno frenato la crescita, avendo risentito negativamente dell’aumento delle tasse.

In definitiva, l’Abenomics ha cercato di ammodernare il Giappone, in stallo da decenni anche per via dell’invecchiamento della popolazione. I risultati, però, non possono che considerarsi insoddisfacenti. Semmai, sono stati apprezzabili in un altro campo: la politica estera. Con Abe, Tokyo si è rilanciata nei consessi internazionali, divenendo il partner attivo e affidabile degli USA nell’Estremo Oriente. Non a caso, se dopo le elezioni di domenica scorsa si parla di modificare la Costituzione pacifista redatta dopo la Seconda Guerra Mondiale, lo si deve proprio all’attivismo di Abe negli anni al potere.

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