La fotografia dell’Italia diventa ogni anno più sbiadita: popolazione in tendenziale calo, oltre che in progressivo invecchiamento; consumi stagnanti; redditi fermi da anni; la più bassa percentuale di laureati tra le grandi economie avanzate del pianeta; tasso di occupazione tra i più bassi nell’area OCSE e disoccupazione giovanile alle stelle. Ad eccezione della Grecia, siamo l’unico paese a non esserci ripresi dalla crisi del 2008-’09, esibendo redditi pro-capite ai livelli di fine anni Novanta e un pil reale a quelli di circa 15 anni fa.

Colpa di chi o cosa? In questi anni, abbiamo preso di mira l’euro, facendo coincidere i nostri guai con l’ingresso nel club della moneta unica. Al netto di alcune considerazioni critiche molto corrette sul funzionamento dell’unione monetaria, non possiamo esimerci da un’analisi ben più seria sulle origini della nostra decadenza economica.

L’Italia figura oggi tra gli stati più tartassati al mondo e tra i meno competitivi in Occidente. La pressione fiscale media di questi anni si è aggirata al 43% del pil, circa 9 punti percentuali al di sopra della media OCSE. Il cuneo fiscale, cioè il peso della tassazione sui redditi da lavoro, pesa da noi per quasi il 48% dell’intera busta paga corrisposta dall’impresa, 12 punti in più rispetto alla media OCSE. E le nostre imprese pagano tra le imposte più alte sui profitti, anche senza tenere conto di balzelli come l’IRAP, inesistenti nel resto del mondo.

Tasse alte e non l’evasione fiscale vera emergenza nazionale 

Punito chi produce

Nonostante ciò, lo stato lamenta costantemente un basso gettito fiscale e lo riconduce agli elevati livelli di evasione delle tasse. In poche parole, i governi ritengono che i contribuenti italiani, tra i più tartassati al mondo, dovrebbero pagare ancora di più, pur celando questa considerazione con lo slogan “pagare tutti, pagare meno”.

Ma se c’è una verità incontrovertibile che emerge da decenni di analisi della storia italiana è che, a fronte di maggiori entrate, i governi tendano a spendere di più e non di meno, per cui se oggi azzerassimo l’evasione fiscale, stimata in oltre 100 miliardi di euro all’anno, verosimilmente ci ritroveremmo con lo stato a spendere altrettanto di più e a piangere ugualmente miseria.

Chi lavora e produce ricchezza in Italia non è ben visto. Oltre ad essere stangato, deve fare i conti con un clima di sospetto, che sta spingendo l’attuale esecutivo a ipotizzare persino una tassa sul contante per limitare i prelievi ai bancomat. E già è possibile per l’Agenzia delle Entrate ricevere aggiornamenti automatici sui saldi dei conti bancari, così da monitorare le entrate di ogni contribuente, come se fossimo tutti schedati e dovessimo fornire spiegazioni sui frutti dei nostri sacrifici, anziché pretendere di conoscere come lo stato spenda i soldi da noi sudati. E mentre il ceto produttivo viene tartassato oltre l’inverosimile e gli vengono messi costantemente i bastoni tra le ruote, una parte dello Stivale vivacchia a sue spese.

Pressione fiscale in Italia cresciuta quasi il triplo dal 2005 rispetto all’Eurozona 

Premiato chi non fa nulla

Il reddito di cittadinanza, con la nascita del governo giallorosso improvvisamente trasformatosi in un provvedimento intoccabile, in sé non è stata una misura sbagliata, garantendo un sostegno minimo alle fasce della popolazione più disagiate. A parte che le dichiarazioni fiscali infedeli alimentano il rischio di fare fluire soldi pubblici nelle tasche sbagliate, il problema sta a monte: prima di redistribuire ricchezza in favore di chi ha bisogno, è necessario favorire chi quella ricchezza la produce. Sequenzialmente, prima sarebbe dovuto arrivare un corposo taglio delle tasse (“flat tax”?) e solo dopo il sussidio per le famiglie meno abbienti.

E sarebbe stato logico: liberiamo le energie di chi produce e prendiamo una porzione della ricchezza extra per destinarla ai più bisognosi.

Il segnale lanciato lo scorso anno, invece, è stato l’ennesimo smacco nei confronti dell’Italia operosa: la tassazione è rimasta del tutto invariata, i bastoni tra le ruote negli ingranaggi del motore produttivo non sono stati rimossi e sono stati premiati coloro che – per carità, spesso per situazioni che esulano dalla loro volontà – non contribuiscono alla crescita materiale propria e dell’economia italiana. Un mondo all’incontrario, per cui chi si comporta bene paga dazio e chi non fa riceve un premio.

Ancora ci chiediamo perché l’occupazione in Italia sia bassa e l’evasione fiscale alta? Che senso ha lavorare e fare impresa, se lo stato ti tartassa, quando puoi vivacchiare a carico della generalità dei contribuenti non facendo nulla? Se tassiamo il lavoro e premiamo la disoccupazione, non ci vuole un Nobel dell’Economia per capire che stiamo creando disoccupati e ipotecando il futuro dell’Italia. E il cambio di mentalità politica risulta tutt’altro che semplice, perché implica la necessità di colpire le sacche di sprechi pubblici, stimati in 200 miliardi di euro all’anno (il doppio dell’evasione fiscale), cioè le clientele e i tanti elettori annidati in uffici pubblici polverosi, inutili e persino d’impaccio per chi voglia fare impresa e investire. Il settore privato è la mucca da mungere da parte del settore pubblico parassitario e di una porzione non indifferente della popolazione alla ricerca continua di espedienti. Ecco l’origine della crisi economica italiana, ecco la ragione per cui il pil non si smuove dallo zero virgola da troppi anni e i posti di lavoro creati sono sempre pochi, mal retribuiti e nemmeno in media qualitativamente elevati.

Evasione fiscale vero problema? No, lo stato italiano spreca 200 miliardi all’anno

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