Gli ultimi dati della Cgia di Mestre sul carico fiscale per gli italiani suona come l’ennesimo allarme inascoltato. In 20 anni, tra il 1997 e il 2017, le entrate tributarie nel nostro Paese sono aumentate di 198,5 miliardi di euro, salendo a 502,6 miliardi. In termini percentuali, si è registrato un boom di oltre il 65%, che al netto della stessa inflazione nel periodo (42,7%) si traduce in un aumento reale del 22,5%. Abbiamo provato a giocare un po’ con questi dati, ottenendo risultati assai interessanti. Ad esempio, nello stesso ventennio il pil nominale dell’Italia si è espanso del 57,4%, ma in termini reali di solo il 14,7%, pari a una crescita media annua dello 0,7%.

In altre parole, stiamo parlando di una lunga fase stagnante della nostra economia. E allora, le entrate tributarie sono cresciute di 1,5 volte più velocemente del pil, come dire che lo stato ha succhiato ai contribuenti poco meno del 30% della maggiore ricchezza nominale prodotta e circa il 42,5% di quella incrementale reale.

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Alla faccia di chi evoca il problema dell’evasione fiscale alla base dei nostri mali, stimata dalla Cgia in un ammanco per lo stato di 114 miliardi di euro all’anno, a vostra disposizione offriamo altri numeri raccapriccianti. Tra il 2007 e il 2017, vale a dire nel decennio di peggiore crisi dal Secondo Dopoguerra per l’Italia e nel corso del quale il pil reale risulta contrattosi di circa il 5,5%, le entrate tributarie sono aumentate di 37,5 miliardi, cioè dell’8%. Certo, nello stesso periodo l’inflazione cumulata è stata del 15%, ma la crescita nominale del pil non è andata oltre uno striminzito 9%. In pratica, gli italiani hanno continuato a pagare le tasse anche in piena crisi.

Più tasse, più debiti

E’ servita a qualcosa tanta austerità fiscale? A conti fatti, non pare proprio. Il pil è rimasto fermo, ma nemmeno i conti pubblici hanno beneficiato delle stangate a carico dei contribuenti, se è vero che il rapporto tra debito e pil è passato nel ventennio dal 113,6% al 131,8%.

L’indebitamento dello stato è cresciuto di oltre l’82% (+40% reale), 25 punti percentuali in più rispetto al pil e 60 rispetto alle maggiori entrate. E’ il classico esempio di “tassa e spendi”, che finisce per spingere l’economia nel precipizio. In buona sostanza, agli italiani sono stati chiesti altri 200 miliardi di euro per contribuire ai costi dell’elefantiaca macchina pubblica, ma lo stato ha speso nel frattempo quasi 720 miliardi in più, indebitandosi per altri 520 miliardi.

Nel 2017, la pressione tributaria risultava salita al 29,3% del pil dal 27,9% del 1997 e ai contribuenti italiani servivano così 154 giorni nell’anno solare solo per pagare le imposte. Peggio di noi in Europa fanno Francia (175), Danimarca (174), Belgio (168), Svezia (163), Finlandia (161) e Austria (156). La migliore in classifica è l’Irlanda con appena 86 giorni, mentre alle nostre spalle troviamo Grecia (153) e Germania (147). Un italiano impiega mediamente 4 giorni in più di lavoro solo per compiere il proprio dovere con lo stato rispetto all’Eurozona, 9 in più se il confronto viene effettuato con l’intera UE.

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La vulgata politica per cui siamo un Paese di evasori fiscali appare pura propaganda per auto-giustificare un modus operandi divenuto palesemente inaccettabile. Certo, resta quel 16,3% di evasione calcolata, che rende ancora più pesante il fardello che i contribuenti onesti devono sopportare, anche se buona parte di tale ammanco deriva dagli stessi italiani che le tasse le pagano, ma che evidentemente sono stanchi di subire vessazioni insostenibili e decidono (sbagliando) di farsi lo sconto, dichiarando meno di quanto dovrebbero. Tuttavia, non è azzerando il contante e attuando una caccia alle streghe che si risolve il problema. Lo stato per primo dovrebbe smettere di avere le mani bucate, perché se chiede ai suoi cittadini di pagare di più e continua a spendere persino oltre il maggiore contributo ricevuto, è chiaro che finisce per mandare tutta l’economia in un fossato, alimentando il mostro del debito pubblico e accrescendo il costo degli interessi da pagare, una voce di spesa improduttiva e di cui faremmo tutti volentieri a meno, visto che senza di essa oggi avremmo a disposizione intorno ai 30 miliardi da destinare ai servizi e/o al taglio delle tasse senza bisogno di reperire alcuna copertura finanziaria.

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