E’ alta tensione tra USA e Cina, dopo che il presidente americano Donald Trump ha imposto da settembre dazi al 10% su merci cinesi per un controvalore annuo di 300 miliardi di dollari. La risposta di Pechino è stata quasi prevedibile: svalutazione del cambio a un tasso superiore a 7 contro il biglietto verde. Nel frattempo, il petrolio è sceso sotto i 60 dollari al barile, segnando un crollo di oltre il 20% rispetto ai livelli toccati ad aprile e ancora a maggio. E se fosse tutta una farsa? Se Washington e Pechino si fossero accordati per scambiarsi reciprocamente qualche favore? Quando si tratta di politica internazionale, troppo facile scadere nella dietrologia.

Ma proviamo a immaginare quale interesse comune Trump e il collega Xi Jinping possano avere.

Draghi svaluta l’euro per sostenere l’inflazione e Trump è già in guerra con la Germania

Uno di questi sarebbe forse accelerare il rallentamento economico mondiale, così che l’economia americana s’inceppi sin da subito o almeno corra tale rischio teorico e possa ripartire già prima delle elezioni presidenziali del novembre 2020; d’altro canto, la Cina beneficerebbe di uno yuan più debole per rilanciare le proprie esportazioni, anche se non nei confronti dell’America, dati i più alti dazi. Manco a dirlo, sarebbe l’Europa a doversi accollare maggiori importazioni di merci cinesi, essendo l’unica altra grande economia nel mondo capace di farlo. E, a differenza degli USA, non ha imposto alcun dazio supplementare contro il made in China, per cui la svalutazione dello yuan si avvertirebbe tutta nel Vecchio Continente, non venendo ammortizzata da tariffe più alte.

Accordo USA-Cina sulla pelle della Germania?

E abbiamo detto del petrolio. Sgonfiandosi, le quotazioni suggeriscono aspettative d’inflazione ancora più basse; un invito ad agire sia per BCE che per la Federal Reserve, oltre alle altre principali banche centrali. Ma come vi abbiamo spiegato in settimana, tra le due sussiste una rilevante differenza: la Fed dispone di maggiori margini per allentare la sua politica monetaria, la BCE no.

E di conseguenza, il dollaro può indebolirsi più di quanto non faccia l’euro. Ed è quello a cui punta Trump, ovvero a rafforzare il cambio euro-dollaro, cioè a sgonfiare il biglietto verde contro la moneta unica, l’unico modo che realisticamente intravede per ottenere un qualche risultato nel breve e medio termine sul fronte dei saldi commerciali USA-UE, ad oggi tutti a favore della seconda.

Cambio euro-dollaro verso 1,20 con il petrolio a meno di 60 dollari?

Tra USA e Cina sarebbe in corso una recita a soggetto, tesa a punire la Germania per il suo eccesso di esportazioni nel mondo. L’affare converrebbe più alle imprese americane, visto che quelle cinesi continuano a vendere in Europa più di quanto non importino da essa. Tuttavia, grazie a questa pantomima, Pechino prenderebbe due piccioni con una fava: si garantirebbe un nuovo mercato di sbocco all’infuori dell’America per il futuro e un accordo commerciale meno punitivo con l’amministrazione Trump.

Evidente, infatti, che se quanto sopra scritto fosse vero, il governo americano premierebbe gli sforzi della controparte con un’intesa meno dura di quanto voglia far credere; magari poco prima del voto, così da segnalare agli elettori di essere stato capace di “piegare” la Cina, mentre questa potrà convincere i suoi abitanti che sia stata l’America a fare concessioni. L’unica a pagare pegno sarebbe la Germania e, per estensione, l’Eurozona, le cui economie restano trainate dalle esportazioni. La produzione industriale tedesca in calo dell’1,8% nel secondo trimestre rispetto al primo lascia immaginare a una recessione imminente, se non già in corso per la prima economia europea. Il colpo di grazia lo darebbe eventualmente la “hard” Brexit in autunno.

E se Berlino non si affretterà a trovare un accordo con Londra, il premier Boris Johnson darà agli europei un assaggio del concetto di “anglosfera”.

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