Ci sono due esiti preliminari dell’escalation commerciale tra USA e Cina. Come sappiamo, i primi imporranno dazi al 10% su 300 miliardi di dollari di merci cinesi, la seconda ha già svalutato lo yuan ai minimi da 11 anni. Le prime conseguenze di questa “guerra” tra le due superpotenze sono state il crollo delle quotazioni del petrolio e l’arresto dell’indebolimento del cambio euro-dollaro sulle attese per una politica monetaria americana più accomodante di quella che il governatore della Federal Reserve, Jerome Powell, ha voluto fare bere ai mercati mercoledì scorso, quando ha comunicato il taglio dei tassi di un quarto di punto percentuale.

Se allarghiamo l’orizzonte temporale di valutazione, notiamo che un barile di Brent alla metà di maggio valeva ancora fino a 75 dollari, mentre oggi è sceso in area 60 dollari. E alla fine di giugno, il cambio euro-dollaro si attestava sopra 1,14, adesso viaggia tra 1,1050 e 1,12. I due movimenti non sarebbero tra loro slegati: più forte il dollaro, meno costa il barile. Perché? Il greggio si compra in dollari e quando la valuta americana si rafforza, esso finisce per costare di più ai mercati all’infuori degli USA, colpendone la domanda.

Perché la svalutazione del cambio cinese deve fare paura all’Europa

Questo è assodato, ma esiste una ragione di più per credere che la forza dell’euro al momento sia correlata negativamente a quella del Brent. Se questo scende parecchio sui mercati, la prospettiva di centrare il target d’inflazione per le principali banche centrali si allontana. Ciò vale per la Fed, la BCE, la Banca del Giappone, etc. Ma tra di esse sussiste una grossa differenza: la Fed è l’unica a disporre di discreti margini di manovra sui tassi, oltre che eventuale sul ripristino degli acquisti di assets con il “quantitative easing”.

L’impatto del mini-barile sul cambio tra euro e dollaro

Anche dopo il taglio di fine luglio, i tassi d’interesse americani si attestano al 2,25%, nell’Eurozona stanno a zero, in Giappone sottozero.

Se il petrolio arretra sotto i 60 dollari, le aspettative d’inflazione si “raffredderanno” ulteriormente presso le economie importatrici, per cui i governatori interverranno. Solo che Powell potrà tagliare ancora i tassi finanche di 225 punti base, la BCE dovrebbe scendere sottozero anche solo se volesse tagliarli un’altra volta ancora. Questo significa, quindi, che i rendimenti sovrani e corporate negli USA hanno un lungo tratto in discesa su cui muoversi, contrariamente a quelli europei e nipponici. Di conseguenza, il dollaro avrebbe modo di indebolirsi, almeno una volta superate le tensioni internazionali che continuano a tenerlo sopravvalutato.

Il cambio euro-dollaro, inchiodato dall’autunno scorso nello stretto range che va da un minimo di circa 1,11 a un massimo di 1,14, romperebbe gli indugi. La già bassa inflazione decelererebbe con il mini-barile e per contrastarla la Fed avrebbe a sua disposizione maggiori strumenti, per cui il dollaro si sgonfierebbe contro l’euro. Non è quello che ancora i mercati scontano appieno per il breve e medio termine. Lo spread tra rendimenti USA e quelli tedeschi a 1 anno punta a un cambio atteso sotto 1,15, tra 2 anni a poco più di 1,17 e ancora tra 3 anni a poco meno di 1,20. Troppo lunghi i tempi di recupero stimati per la moneta unica. C’è tutta la sensazione che con la discesa sotto i 60 dollari al barile, la retorica di Trump contro i tassi alti si farà sentire e muterà repentinamente le aspettative del mercato.

Ecco perché il Treasury s’impenna dopo la svalutazione del cambio cinese

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