L’inflazione non è più da tempo percepita come un problema in tutto il mondo avanzato. Ormai, vedere crescere i prezzi del 2% su base annua è qualcosa di raro, verificatosi perlopiù negli USA per via dei più alti tassi di crescita dell’economia. In scia a questo trend, la Federal Reserve si è pronunciata a favore della tolleranza per tassi d’inflazione più elevati rispetto al target e contro un pronto aumento del costo del denaro al raggiungimento della piena occupazione.

E’ un dato di fatto, però, che anni di bassi tassi non abbiano rinvigorito neppure le aspettative d’inflazione.

Eppure, stando alla teoria economica, essi avrebbero dovuto spronare gli investimenti, i consumi e, pertanto, i prezzi. Non è andata proprio così. La domanda interna nell’Eurozona è rimasta debole, con la crescita affidata perlopiù alle esportazioni. E d’inflazione non v’è traccia da diversi anni.

Possibile che siano proprio i bassi tassi a tenere l’inflazione quasi azzerata? Se così fosse, dovremmo dare ragione al presidente turco Recep Tayyip Erdogan, il quale sostiene che abbassando il costo del denaro si aumentano gli investimenti delle imprese, i quali si tradurranno in maggiore offerta di beni e servizi, portando al calmieramento dei prezzi. Tuttavia, in Turchia i prezzi crescono a doppia cifra proprio per il surriscaldamento provocato dai bassi tassi reali fissati dalla banca centrale.

Cambio euro-dollaro ai massimi da 2 anni, verso inflazione sottozero?

Bassi tassi e bassa inflazione

Ciononostante, il ragionamento sotteso alla cosiddetta Erdoganomics non va cestinato del tutto. Peccato solo per Ankara che varrebbe per economie mature come USA ed Eurolandia. In che senso? I bassissimi tassi d’interesse nell’ultimo decennio hanno messo a disposizione dei colossi americani, in particolare, liquidità abbondante e a costi molto sostenibili. Ne sono seguiti grossi investimenti, in comparti rivelatisi determinanti ai fini della crescita e del mantenimento della stabilità dei prezzi.

Pensate al boom dello “shale” americano. Le compagnie petrolifere hanno investito centinaia e centinaia di miliardi e grazie alla loro offerta, il mercato mondiale ha registrato una crescita della produzione che ha sovrastato quello della pur alta domanda, con il risultato che le quotazioni sembrano essersi stabilizzate su livelli dimezzati rispetto ai picchi toccati nel 2014, al netto degli effetti del Covid. E basse quotazioni petrolifere implicano inflazione contenuta presso le economie importatrici.

Perché petrolio e tassi sono legati e come deprimono l’inflazione

Ebbene, questo mare di investimenti è stato reso possibile anche grazie ai bassi tassi. Per non parlare della nascita dei colossi della Silicon Valley, molti dei quali hanno assunto dimensioni nei fatti quasi monopolistiche, travolgendo la concorrenza tradizionale. Un esempio è Amazon, che inonda di prodotti il mercato globale, costringendo i negozi fisici a tenere bassi i prezzi per non soccombere. E anche in questo caso, sono stati necessari enormi investimenti per assurgere a giganti, resi disponibili dai bassi tassi di finanziamento.

Una realtà non per tutti

Stiamo affermando, in buona sostanza, che alcuni degli ingredienti alla base della bassa inflazione, come la globalizzazione e l’avanzamento tecnologico, possano essere legati ai bassi tassi d’interesse. Unitamente all’invecchiamento demografico, che tiene bassi i consumi in un’ampia fascia della popolazione terrestre, avrebbero contribuito a una crescita tendenziale quasi nulla dei prezzi.

Se questo fosse vero, varrebbe per quelle realtà economiche mature, in cui si ha una struttura tecnologica e bancaria avanzata, tale da trasformare gli investimenti in un aumento sostenuto dell’offerta di beni e servizi nel tempo e in un mercato molto ampio. In conclusione, i bassi tassi non solo sarebbero il riflesso dei bassi tassi d’inflazione, ma a loro volta la provocherebbero.

Perché i bassi tassi a lungo finiscono per deprimere la crescita economica

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