L’industria petrolifera americana ha estratto nella settimana al 23 giugno scorso 9,25 milioni di barili al giorno, in calo dai 9,35 milioni della settimana precedente. Una contrazione, che ha rinvigorito le quotazioni del petrolio, consentendo loro di tornare sopra i 45 dollari per il Wti americano e a 48 dollari per il Brent. Resta il fatto che quest’anno, la produzione negli USA è cresciuta di quasi mezzo milione di barili al giorno, il 40% di quanto l’OPEC si sia impegnato a tagliare nel novembre scorso.

Questo contribuisce a spiegare il calo dei prezzi negli ultimi mesi, accentuato a giugno e a sua volta apre un capitolo assai più complesso, quello dell’interazione tra numero di barili estratti e tassi d’interesse.

L’America di Janet Yellen e Donald Trump è nel bel mezzo di una stretta monetaria, iniziata nel dicembre del 2015. Tassi USA più alti tendono a fare apprezzare il dollaro contro le altre valute. Poiché il petrolio si vende proprio in dollari, ciò comporta costi più alti per i clienti stranieri e conseguente riduzione della domanda. (Leggi anche: Quotazioni del petrolio e tassi zero, il circolo vizioso che fa tremare il mercato)

Boom shale finanziato a debito

Mai i tassi impattano negativamente sulle quotazioni petrolifere per il tramite dell’incentivo all’aumento della produzione. Già, perché ad avere sostenuto il boom dello “shale” nell’ultimo decennio è stato il credito elargito dalle banche alle compagnie a stelle e strisce. Tale debito diventa più caro con il rialzo dei tassi, man mano che deve essere rinnovato o qualora sia stato contratto a interessi variabili. Secondo la Columbia University, le compagnie petrolifere con rating da “B” a “CCC-” si vedrebbero esplodere del 30% la spesa per interessi, nel caso i tassi Libor aumentino del 2%.

Il debito di 63 compagnie americane tra il 2005 e il 2015 si è quadruplicato e quando le quotazioni del petrolio si sono schiantate, un centinaio di imprese meno efficienti ha chiuso battenti.

Il mercato sta scontando negli ultimi mesi proprio un aumento del rischio per le compagnie attive nel settore energetico USA e con rating “junk”, come segnala il boom dei rendimenti extra richiesti rispetto agli altri titoli “junk”: da un premio di 43 punti base di fine gennaio si è arrivati ai 150 bp del 20 giugno scorso. (Leggi anche: USA, bond energetici fanno paura)

Più barili per pagare debiti

Man mano che i tassi di mercato crescono, le compagnie petrolifere indebitate si vedono costrette a massimizzare i ricavi per ottenere flussi di cassa positivi con i quali pagare gli interessi e il capitale. Per fare ciò, devono aumentare le estrazioni, compatibilmente con il livello dato degli investimenti, ma finendo inevitabilmente di deprimere le quotazioni internazionali.

Riassumendo: la stretta monetaria della Federal Reserve tende a rafforzare il dollaro, indebolendo le quotazioni del greggio. Salendo i tassi di mercato, le compagnie più indebitate sono costrette a produrre di più per ricavare il massimo possibile e ripagare i prestiti ottenuti. L’insieme di queste due tendenze spinge l’inflazione verso il basso. Unica spinta contrastante verrebbe dalla stretta eventualmente adottata dalle altre principali banche centrali, che finendo per apprezzare le rispettive valute, contrasterebbe il super-dollaro. E’ quello che è accaduto questa settimana: -1,7% accusato dal biglietto verde mediamente contro le altre valute, a seguito dei toni “hawkish” dei banchieri centrali europei. E il petrolio ha guadagnato oltre il 4%. (Leggi anche: Tassi BCE, rialzo da fine anno ora probabile per il mercato)

Giuseppe Timpone