Bitcoin ai nuovi massimi storici. In settimana, ha superato la soglia dei 20.000 dollari e giovedì ha sfiorato i 23.700. Dall’inizio dell’anno, segna un roboante +220%. Ormai, la “criptovaluta” per eccellenza è nel mirino dei grossi finanzieri, che vogliono inserirla in portafoglio per partecipare almeno in parte ai guadagni a tripla cifra di questa fase. Da sempre un rifugio per i venezuelani in cerca di protezione del potere di acquisto, con il bolivar praticamente ridotto a carta straccia e neppure più adottato per gli scambi interni, sino a poco tempo fa l’esercito del regime “chavista” veniva spedito presso le abitazioni sospettate di essere centri di “estrazione” di Bitcoin.

Nel 2017, ad esempio, scattarono diversi arresti a seguito dei blitz e i responsabili vennero accusati di danneggiare la rete elettrica nazionale, provocando numerosi blackouts.

Prezzo dei Bitcoin sopra 20.000 dollari e stavolta a puntarci sono i big della finanza

Estrarre un Bitcoin da un blocco è un’operazione molto sofisticata sul piano informatico e richiede l’uso di PC potenti e di tanta energia elettrica. Ma in Venezuela, la corrente è quasi gratis, essendo sussidiata dallo stato. Per questo, il paese è stato sin dal primo boom della “criptovaluta” un luogo ideale per il “mining”. Oltre tutto, i venezuelani hanno da anni estremo bisogno di un asset che consenta loro di fare la spesa senza preoccuparsi che perda valore nel tragitto tra casa e supermercato. Addirittura, in questi anni numerosi giovani hanno dato una mano alle famiglie, partecipando ai giochi online sui social per incassare i gettoni virtuali, utilizzabili per acquisti in rete.

Il “mining” del regime per aggirare le sanzioni

Questa la situazione sino a qualche settimana fa. Alla fine di novembre, il salto di qualità. Il regime di Nicolas Maduro non solo non contrasta più la produzione di Bitcoin, ma anzi ha fatto costruire un bunker fuori da Caracas, nella base militare di Fuerte Tiuna, in cui si estraggono monete digitali, avvalendosi di computer potentissimi, costati (pare) sui 20 mila dollari ciascuno.

Il ricavato di questa produzione serve per autosostentare l’esercito e per importare prodotti dal Iran e Turchia, le due economie con cui il Venezuela sarebbe commercialmente a maggiore contatto in questo periodo, malgrado le sanzioni.

Sin dall’agosto del 2017, il Venezuela è sotto embargo dagli USA per le numerose e ripetute violazioni dei diritti umani. Non può né comprare e né vendere in dollari americani. A causa di ciò, Caracas non riesce più da oltre tre anni a pagare il suo debito estero. Negli ultimi mesi, diverse riprese via satellite hanno scoperto che, comunque, il regime riuscirebbe ugualmente ad esportare petrolio, avvalendosi di navi cargo iraniane. E la Turchia fungerebbe da “hub” per lo smercio di oro delle riserve ufficiali.

Non sappiamo cosa il Venezuela stia importando dai due paesi in cambio di Bitcoin, ma di certo lo stratagemma gli sta servendo per aggirare le sanzioni. E chi comprerebbe Bitcoin dall’esercito bolivariano? Con molte probabilità, coloro che devono riciclare denaro. I sospetti principali ricadrebbero sui narcotrafficanti. Lo stesso presidente Nicolas Maduro e parte del suo governo vengono accusati formalmente da Washington di essere a capo di un narco-stato. Queste operazioni starebbero ormai avvenendo alla luce del sole, con il regime a non farsi più alcuno scrupolo sulle modalità di accesso ai dollari. Non è un unicum nel mondo, se è vero che la Corea del Nord, anch’essa sotto embargo internazionale per le sue minacce nucleari, da anni venga sospettata di essere dietro un grosso giro di furti di Bitcoin, oltre che direttamente di denaro sui conti di svariate istituzioni. Per il resto, nulla di nuovo sotto il sole. In tutte le economie al collasso, caratterizzate da iperinflazione e cambio a picco, le “criptovalute” sono diventate un’alternativa sempre più diffusa tra la popolazione per sfuggire alla fame.

Pagamenti in dollari e Bitcoin ‘minati’ senza internet, il Venezuela si arrangia

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