Sarà Mario Draghi il prossimo presidente della Repubblica? Lo scopriremo non prima della quarta votazione, che avrà luogo dopodomani, quando servirà la maggioranza assoluta dei 1.008 elettori (erano 1.009 prima della scomparsa del deputato forzista Vincenzo Fasano). Nessuno dei 12 capi di stato dal Secondo Dopoguerra è stato eletto quando era in carica come presidente del Consiglio. Il passaggio diretto dall’uno all’altro ruolo sarebbe un inedito da gestire con estrema delicatezza per non rischiare il caos istituzionale.

Ma i partiti in questi giorni sono tutt’altro che convinti di votare Draghi presidente.

Anzitutto, per il timore che un nuovo premier non sia in grado di tenere unita la variegata maggioranza e finisca per precipitare l’Italia ad elezioni anticipate. A temerle più di tutti sono i parlamentari del Movimento 5 Stelle, i quali sarebbero falcidiati di numero tra taglio dei seggi voluto dalla loro riforma costituzionale e crollo dei consensi patito in questi quasi quattro anni di governo.

In realtà, i partiti temono che Draghi al Quirinale rappresenti un loro commissariamento definitivo fino al 2029. L’Italia diverrebbe in maniera ufficiale una Repubblica tecnocratica. Cercano soluzioni per loro meno umilianti, come Pierferdinando Casini, un moderato che va bene a tutti, in quanto non nemico di nessuno. Lo spread ieri saliva sopra 140 punti base, ai massimi dal settembre 2020, a segnalarci che i mercati finanziari non la pensino così. Essi tifano Draghi presidente, consapevoli che una sua permanenza a Palazzo Chigi, oltre ad essere temporanea, segnerebbe la sua sconfitta personale. E con essa, di tutti i filo-tecnocrati.

Draghi presidente o ritorno alla politica

Da qui a giovedì, si moltiplicheranno sui giornali e in TV gli appelli di quanti metteranno in guardia i partiti dal giocare brutti scherzi a Draghi approfittando dello scrutinio segreto. In gioco ci sarebbero i 200 miliardi tra prestiti e sussidi dell’Unione Europea con il Recovery Fund, oltre che la tenuta del debito pubblico sui mercati.

Insomma, o Draghi o morte. Come nel 2011, quando quel “fate presto” per invocare l’approvazione della finanziaria “lacrime e sangue” del neo-premier Mario Monti avrebbe dovuto salvarci dall’invasione delle cavallette.

Se la politica italiana avesse una dignità, cosa che non è da almeno un decennio, convergerebbe su una qualche figura autorevole e magari trasversalmente ben accetta. Ed è quanto stia provando a fare in queste ore. Ma si tratta di un esercizio fuori tempo massimo. Con l’arrivo di Draghi al governo, essa si è consegnata mani e piedi alla tecnocrazia definitivamente, riconoscendo la propria incapacità di gestire fasi complesse. Questo è il quarto premier tecnico in meno di trenta anni, qualcosa vorrà pur dire. Gli stessi partiti, specie a sinistra, hanno educato i propri elettori a pensare che i tecnici siano migliori dei politici, in quanto “competenti”. Un’assenza di autostima e dignità, che difficilmente potrà essere recuperata grazie a un sussulto in fase di scouting del prossimo presidente della Repubblica.

La terra bruciata attorno alla tecnocrazia

Quando gli stessi leader accettano e fanno propria la narrazione, secondo cui senza Draghi l’Italia non ce la farebbe a gestire un debito monstre da 2.700 miliardi di euro e non avrebbe sufficiente autorevolezza in Europa e nel mondo, viene meno il senso stesso di andare a votare per rinnovare ogni cinque anni un Parlamento svuotato di ogni significato pratico, ridotto all’accettazione supina del vincolo esterno e all’approvazione di decreti che neppure ha il tempo di leggere. E’ stato particolarmente così in questa legislatura con i numerosi Dpcm del governo Conte-bis prima e Draghi adesso, per non parlare del Trattato del Quirinale, siglato in gran segreto tra Sergio Mattarella ed Emmanuel Macron alla presenza dello stesso premier. Nessuno dei 945 parlamentari eletti ne conosce il contenuto.

Draghi presidente sarebbe l’ufficializzazione della vittoria della tecnocrazia sulla democrazia rappresentativa. Una sua eventuale sconfitta aprirebbe grossi interrogativi non tanto sul prosieguo di una legislatura che non ha più nulla da dire da un pezzo, quanto dell’Italia e delle sue istituzioni. Dopo anni e anni di retorica anti-politica, saprebbero i partiti gestire una fase di trattative complesse, dure e lunghe con l’Europa sul Recovery Fund? E dopo che le classi dirigenti di spessore sono praticamente scomparse lasciando spazio a comparse da avanspettacolo, come si penserebbe di rimpiazzare i tecnocrati a cui è stata venduta l’anima? Lo spread sopra 140 è lì a ricordarci che i mercati si aspettano che il Parlamento faccia semplicemente quello per cui è chiamato a fare ormai da un decennio abbondante: eseguire gli ordini impartiti da Bruxelles, a tutela degli interessi delle case d’investimento creditrici dell’Italia.

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