Da anni, quando si parla di Mario Draghi si sente spesso citare il suo ruolo nel caso Britannia. I suoi detrattori lo considerano una prova tangibile del fatto che il premier incaricato sarebbe stato nell’ultimo trentennio il rappresentante dei famosi “poteri forti” che hanno “svenduto l’Italia”. Vediamo cosa c’è di vero e cosa no in questa storia. Era il 2 giugno 1992 e al largo delle coste di Civitavecchia naviga il Royal Yacht Britannia, il panfilo di Sua Maestà la Regina Elisabetta II.

A bordo si tiene un meeting, organizzato da un gruppo di finanzieri di Londra, al quale si discute del futuro economico dell’Italia. Tra gli ospiti italiani invitati vi è l’allora direttore generale del Tesoro, che fino all’anno precedente era stato direttore esecutivo della Banca Mondiale.

Secondo le ricostruzioni, Draghi non si trattiene a lungo alla riunione, introducendo un breve discorso di saluto centrato sulle privatizzazioni. Egli sostiene che la vendita degli assets statali fosse una buona occasione per accrescere le potenzialità produttive del nostro Paese, ma metteva in guardia dall’utilizzarne i ricavi per tagliare i deficit, suggerendo di impiegarli semmai per abbattere il debito. E aggiunse che le privatizzazioni non avrebbero, in ogni caso, rappresentato una scorciatoia per evitare il risanamento fiscale. Quest’ultimo, continuò, sarebbe stato praticamente centrale per i governi dei successivi 5 anni, a seguito della firma del Trattato di Maastricht, avvenuta nel febbraio precedente e che aveva posto le basi per la nascita dell’euro.

Questi sono i fatti. Secondo i complottisti, da lì sarebbero iniziate le sventure dell’Italia e l’ascesa al potere di Draghi. Quest’ultimo avrebbe concordato con un gruppo di avidi finanzieri della City la svendita delle aziende statali e sarebbe stato ripagato assumendo ruoli di crescente importanza nel panorama finanziario nazionale. Chi racconta questa storia non conosce né le date e né riesce a storicizzare gli eventi.

Partiamo da questi ultimi. L’Italia nel 1992 era al collasso economico, finanziario e politico. Pochi giorni dopo la firma a Maastricht, il presidente Francesco Cossiga scioglieva le Camere e le elezioni di aprile decretavano la morte della Democrazia Cristiana, il partito-perno della Prima Repubblica, scesa per la prima volta sotto il 30% dei consensi. Faceva il suo ingresso in Parlamento, invece, una forza secessionista del nord produttivo e contraria alla politica degli “inciuci” e “corrotta”: la Lega Nord di Umberto Bossi.

E’ crisi del sistema, così l’Italia rivive il 1992 con 25 anni di stagnazione alle spalle

Il collasso dell’Italia nel 1992

Nello stesso periodo, partivano le inchieste di Mani Pulite, che nel giro di pochi mesi avrebbero spazzato via un’intera classe politica e dirigente. E quando Draghi parla sul Britannia, lo fa a pochi giorni dall’assassinio del giudice Giovanni Falcone e poche settimane prima che facesse la stessa fine il collega Paolo Borsellino. Di lì a breve, la lira italiana sarebbe stata attaccata sui mercati valutari e uscita per un periodo dallo SME, il sistema dei cambi che regolava da quasi un quindicennio i rapporti tra una dozzina di valute europee. Con un deficit al 10% e un debito pubblico ben sopra il 100%, l’esigenza di risanare i conti dello stato era fondamentale, non solo per entrare nell’euro, quanto per evitare il crac definitivo. Anzi, l’aggancio all’euro venne considerato dalla morente classe politica come un vincolo esterno con cui legarsi le mani e implementare quelle riforme che tutti sapevano andassero fatte da anni, ma che nessuno aveva avuto il coraggio di proporre sul serio, in quanto avrebbero colpito clientele e consensi consolidati.

In questo quadro, Draghi si limita ad evidenziare un’ovvietà, ovvero che le aziende di stato fossero mal gestite e un pozzo senza fondo per i conti pubblici, chiudendo i bilanci con perdite complessive per decine e decine di migliaia di miliardi di lire ogni anno.

Le privatizzazioni avrebbero consentito ai governi sia di racimolare entrate fresche con cui tenere temporaneamente a bada il debito, sia di rilanciare la produttività dell’Italia. Inoltre – altro punto centrale del discorso draghiano – unitamente alle altre riforme, avrebbero riportato la fiducia verso il nostro mercato tra gli investitori esteri. E sul panfilo, gli inglesi portavano come esempio i risultati che il thatcherismo aveva fruttato per il Regno Unito con la ventata di mercato dopo decenni di statalismo.

Perché queste parole di Draghi sono state travisate? In effetti, dobbiamo ammettere che le privatizzazioni all’italiana siano state negli anni Novanta un semi-flop. Pezzi di industria furono ceduti dai governi di centro-sinistra ad imprenditori spesso amici e per pochi spiccioli, finendo in mani sbagliate e non creando nel tempo valore aggiunto per l’economia, tutt’al più avendo arricchito chi era stato nelle condizioni di concludere l’affare. Si pensi solamente al caso Telecom Italia, ex SIP, o alle autostrade. Ma con questo Draghi non c’entra un bel nulla. E, soprattutto, non viene meno la bontà del suo ragionamento. Fu sbagliata l’esecuzione, in molti casi, vuoi per la fretta di fare cassa, vuoi per l’atteggiamento di connivenza tra settori della politica e dell’imprenditoria nazionale. L’errore più grande commesso fu di avere spesso ceduto ai privati monopoli statali, senza avere prima liberalizzato il mercato, creando danni ai consumatori e frenando gli investimenti, con inevitabili ritardi nello sviluppo di interi comparti.

Perché le privatizzazioni degli anni Novanta furono un disastro annunciato

Draghi parafulmine di responsabilità altrui

Ma la scalata di Draghi non ha nulla a che spartire con il Britannia. La sua nomina a governatore della Banca d’Italia avverrà solamente a fine 2005 per volontà dell’allora premier Silvio Berlusconi, estraneo ai fatti raccontati.

Ed è quasi casuale, perché arriva dopo che il predecessore Antonio Fazio era stato costretto a dimettersi per uno scandalo giudiziario legato al sistema bancario. Il suo mandato era a vita e solo la riforma del governo di centro-destra introduce una scadenza di sei anni. E nel 2011, quando i governi europei trattano sul nome del successore di Jean-Claude Trichet alla BCE, il nome di Draghi viene avanzato sempre da Berlusconi, il quale prima di lasciare Palazzo Chigi riporta forse il suo più grande successo in politica estera.

Il resto è cronaca. L’uomo dei “poteri forti” è stato colui che alla guida della BCE si è scontrato con la più grande e importante banca centrale europea, la Bundesbank. Ha azzerato i tassi, ha iniettato quasi 3.000 miliardi di liquidità sui mercati nel corso del suo mandato e ha salvato l’euro dagli attacchi speculativi contro gli stati del Sud Europa. Quello che i complottisti italiani considerano un “traditore” della Nazione, in Germania è considerato un “massacratore dei risparmi tedeschi”, uno che da governatore avrebbe tutelato gli interessi di stati falliti come l’Italia. Se dopo il governo Monti abbiamo continuato a scialacquare i denari pubblici come se nulla fosse accaduto prima, lo dobbiamo in parte grazie proprio a quel Draghi, che, spegnendo lo spread, ha fatto venire meno il clima di allarme che a fine 2011 aveva costretto il Cavaliere a uscire da Palazzo Chigi tra i fischi di una folla inferocita per la crisi.

Tutto sembra, fuorché il ritratto di un uomo che abbia utilizzato le istituzioni per danneggiare gli interessi italiani. E se i risultati delle sue azioni l’uomo della strada non li ha potuti granché toccare con mano, beh, la responsabilità è stata dei governi di Roma. Draghi si è spinto persino oltre il suo stretto mandato per tenere l’Italia nell’euro ed evitarci una fine ancora più ingloriosa e irrimediabile. Diffidate dall’agiografia di chi lo dipinge in questi giorni come un salvatore della Patria, ma anche delle caricature di quanti lo vorrebbero per forza espressione delle banche e di un mondo di rettiliani che avrebbe cospirato contro il nostro benessere. Sono rispettivamente il frutto di un pensiero che tende a scorgere un Messia a ogni piè sospinto per nascondere i propri fallimenti e che punta ad additare ai complotti le responsabilità di una crisi, che ha radici profonde e diffuse presso la società italiana, coinvolgendo un po’ tutte le categorie sociali e produttive.

Mario Draghi come Monti? Ecco perché sarebbe un governo tecnico molto diverso da quello del Prof

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