Se il governo Draghi nascerà, sarà una riedizione di quello guidato dal Prof Mario Monti tra fine 2011 e la primavera 2013? E’ la domanda che si pongono da ieri sera milioni di italiani, molti dei quali spaventati dall’idea di ripiombare in una fase di austerità fiscale che ancora oggi suscita ricordi molto controversi. Gli stessi leader di partito, chiamati in fretta a dichiararsi pro o contro il quarto governo tecnico della storia italiana, nutrono dubbi sull’accoglienza che un loro eventuale sostegno riceverebbe tra le rispettive basi.

Eppure, Draghi e Monti in comune hanno il nome e poco altro. Quando l’ex commissario UE formò il governo nel novembre del 2011, la situazione finanziaria in Italia versava in condizioni assai critiche. Il Tesoro aveva emesso un BoT a 6 mesi con rendimento del 6,40%, mentre lo spread BTp-Bund a 10 anni era salito fino a un massimo di 576 punti base. I mercati temevano per la tenuta del debito pubblico italiano, anche perché la BCE si era mostrata molto rigida nella sua impostazione monetaria dopo la crisi del 2008, alzando i tassi proprio nell’estate del 2011, quando infuriava già la tempesta ai danni dei bond sovrani del Sud Europa.

Mario Draghi premier: numeri, dubbi e scenari sull’uomo che salvò l’euro e l’Italia con il “whatever it takes”

Draghi s’insediò alla guida della BCE qualche settimana prima che al governo di Roma arrivasse Monti. E subito si mostrò molto diverso dai predecessori, iniettando a favore delle banche dell’Eurozona più di 1.000 miliardi tra dicembre e il febbraio successivo. Liquidità, che in grossa parte fluì nei bilanci degli istituti italiani e che venne impiegata per acquistare titoli di stato. O come quando nel luglio 2012, avvisò i mercati che avrebbe fatto ogni cosa (“whatever it takes”) per salvare l’euro. Nelle settimane successive, mise a punto un piano anti-spread (OMT), il cui solo varo spense gradualmente la speculazione contro i cosiddetti PIIGS.

Il resto è quasi cronaca: tassi azzerati e negativi sui depositi overnight delle banche, aste a medio-lungo termine a favore delle banche e “quantitative easing”.

Le differenze tra Draghi e Monti

Ma anche per formazione accademica, Draghi e Monti sono diversi. Il primo è stato studente di Federico Caffè, professore keynesiano, scomparso nel nulla negli anni Ottanta e mai ritrovato. Nella sua tesi di laurea, il futuro salvatore dell’euro scriveva che la moneta unica sarebbe stata “una follia”. Chiaramente, nei decenni successivi si ricredette. Ma è forse l’intervista dello scorso anno rilasciata al Financial Times a chiarire meglio il pensiero economico draghiano. Egli dichiarò che gli stati saranno costretti a fare debito pubblico e che bisognerà semplicemente far sì che questi sia di buona qualità, cioè di sostegno al futuro. In soldoni, Draghi non è un sostenitore né dell’austerità fiscale, né del monetarismo, inteso come politica monetaria finalizzata al solo perseguimento della stabilità dei prezzi.

In un certo senso, potremmo affermare che Draghi sia un uomo più di sinistra che di destra, almeno sul piano delle idee economiche nel campo accademico. Monti dovette, invece, dimostrare sin da subito di essere in grado di ridurre il deficit con tagli alla spesa pubblica e aumenti delle tasse, così da far riguadagnare all’Italia la fiducia dei mercati. E lo fece in assenza di un chiaro sostegno della BCE ai governi, dato che l’esordiente Draghi a quel tempo dovette faticare anni prima di trovare il consenso nel board per cambiare strada.

Ecco, questo è un aspetto poco indagato dell’ex governatore e che lo contraddistingue dal Prof della Bocconi. Draghi ha capacità di mediazione politica, pur essendo un “tecnico”, che Monti dimostrò e dimostra tutt’oggi di non possedere.

E queste sue qualità gli derivano dal fatto di essere stato alla guida del Tesoro nei fatidici anni Novanta delle privatizzazioni e dell’ammodernamento legislativo in campo finanziario, nonché successivamente della Banca d’Italia prima e della BCE dopo, tutti organi che richiedono competenze certamente tecniche, ma anche abilità di “consensus building”, cioè prettamente politiche.

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Perché non siamo come nel 2011

E anche le fasi storiche sono diverse, pur essendo trascorsi poco più di 9 anni. L’Italia di oggi si trova, anche per merito di Draghi, con una BCE ultra-accomodante, la quale tiene i costi di indebitamento azzerati. Già prima della pandemia, ci si era resi conto che il problema principale dell’Italia non fosse l’alto debito in sé, quanto la bassa crescita economica, frutto di riforme sempre rinviate, in quanto impopolari e contrastanti con alcuni clientelismi consolidati. Il “mood” del 2021 è molto differente da quello del 2011. Allora, mercati e Commissione ci chiedevano i famosi “sacrifici” per tendere al pareggio di bilancio, oggi ci invocano riforme per crescere, unitamente a una politica fiscale prudente, ma non necessariamente maniacale.

Gli stessi partiti hanno imparato la lezione dell’esperienza Monti. Le misure drastiche non solo non hanno portato a miglioramenti macroeconomici, ma hanno fatto esplodere la protesta sociale, rendendo il panorama politico instabile e ponendo fine al bipolarismo ventennale. Se siamo arrivati a questo punto, lo si deve proprio agli effetti negativi derivanti dal governo Monti, capace di seminare malcontento a destra e sinistra. Certo, quando Draghi presenterà la sua agenda programmatica, non pensate che saranno tutte rose e fiori per i partiti che vorranno sostenerlo. La spesa pubblica andrà riconvertita dall’assistenza agli investimenti, così come la stessa tassazione potrebbe subire aggiustamenti a favore dei redditi e gravando ulteriormente su consumi e immobili. Tuttavia, le impellenze sono di tale gravità, che per i primi mesi la luna di miele sarebbe, se non assicurata, almeno probabile.

Tra lotta alla pandemia, campagna vaccinale, Recovery Fund e crisi economica, si arriverà comodamente all’estate o finanche all’autunno senza dover scontentare qualche categoria. E tra un anno, già Draghi sarebbe presidente della Repubblica.

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