Il presidente Alberto Fernandez è stato ricevuto ieri dal premier Mario Draghi a Palazzo Chigi, al termine di un tour europeo che lo ha visto girare a Madrid, Lisbona e Parigi in cerca di sostegno. La sua Argentina cammina a rapidi passi verso il decimo default della sua storia. Ormai, associare Buenos Aires al fallimento è quasi istantaneo. E i fatti non riescono a smentire il cliché, anzi. Il capo dello stato, in carica dal dicembre 2019, vorrebbe rinviare di altri 4 anni il pagamento dei debiti contratti con il Fondo Monetario Internazionale (FMI).

Il suo predecessore Mauricio Macri ottenne nel 2018 ben 56 miliardi di dollari dall’istituto, di cui 44 miliardi già erogati.

Default Argentina, una storia travagliata

Ma il default in Argentina è uno spettro che accompagna ormai costantemente la storia nazionale negli ultimi decenni. A fine 2001, il paese dovette alzare bandiera bianca su quasi 100 miliardi di dollari nei confronti dei creditori stranieri, molti dei quali italiani (la famosa vicenda dei Tango bond). Nel 2005, offrì loro un accordo: pagamenti dilazionati e per solo il 35% del capitale nominale. Un 7% degli investitori non accettò e fece causa al governo dinnanzi al tribunale di New York. Il giudice Thomas Griesa diede loro ragione, ma l’allora presidenta Cristina Fernandez de Kirchner si rifiutò di pagare. Scattò l’ottavo default, a cui pose fine due anni più tardi Macri.

Ma nel 2018, la sfiducia dei mercati verso le reali capacità riformatrici del governo provocò il collasso del peso. L’Argentina ebbe nuovamente bisogno di soldi per evitare il fallimento e l’FMI glieli diede per l’ennesima volta. Con il ritorno alla presidenza dei peronisti di sinistra, però, si dà vita a una ristrutturazione del debito su 65 miliardi di dollari in mano ai creditori privati. L’accordo è stato siglato nell’estate scorsa e, secondo le stime di Buenos Aires, sfoltisce i pagamenti di 37,7 miliardi in 10 anni.

Tra l’altro, la cedola media dei nuovi bond è stata tagliata dal 7% al 3%, mentre il capitale sarà rimborsato al 55%.

Tuttavia, i debiti verso l’FMI restano intonsi. L’ex presidenta, oggi numero due dell’amministrazione, guida il fronte dei contrari a un accordo in cambio di riforme. Nei giorni scorsi, è stata chiara quando ha dichiarato che “non pagheremo i debiti, perché non abbiamo soldi”. Nel frattempo, il PIL nel 2020 è crollato del 9,9% anche a causa del Covid, mentre l’inflazione galoppava al 46,3% in aprile. E il cambio continua a collassare: sul mercato nero ci vogliono 151 pesos per un dollaro, molti di più dei 94 richiesti secondo il cambio ufficiale. Quest’ultimo perde il 28% in un anno e l’85% in 5 anni.

Solito governo “tassa e spendi”

Con il tour europeo, Fernandez spera di ottenere un doppio aiuto dai governi: condizioni migliori sui 2,4 miliardi dovuti ai creditori del Club di Parigi e una buona parola per l’FMI. Il problema dell’Argentina, però, resta lo stesso. Non riesce a pagare, perché gestisce in maniera fallimentare la sua economia. Ad esempio, sta ponendo un tetto sui prezzi di centinaia di prodotti per combattere l’inflazione, ma di fatto alimentandola. Poiché l’offerta si riduce per l’impossibilità di tenere testa ai costi, i prezzi esplodono. Peraltro, come in ogni economia dirigistica che si rispetti, il mercato nero si mostra fiorente.

La povertà riguarda ormai più di 10 milioni di argentini, quasi un quarto del totale, mentre il governo cerca di fare cassa tassando tutto. Ha imposto una tassa “di solidarietà” del 30% sulle spese realizzate all’estero con le carte, mentre vorrebbe aumentare i dazi sulle esportazioni per dirottare la produzione sul mercato domestico. Imposta anche una patrimoniale sulle ricchezze più elevate. Per frenare la fuga dei capitali, ha limitato a 200 dollari al mese i prelievi dalle banche.

La retorica fortemente anti-capitalistica tiene alla larga gli investitori stranieri e mette in fuga persino quelli nazionali. L’unica possibile boccata di ossigeno al paese arriverebbe dall’aumento delle riserve dell’FMI (SDR), attingendo alle quali l’Argentina riuscirebbe a pagare un paio di scadenze nei prossimi mesi.

Niente riforme economiche, Fernandez ostaggio di Cristina

Di questo passo, gli analisti ritengono che il decimo default dell’Argentina scatterebbe entro il 2024. In effetti, la ristrutturazione del debito avvenuta nel 2020 è stata forse la prima nella storia a non avere riscosso alcuna fiducia da qualsivoglia parte. E’ stata avallata dai creditori per la semplice assenza di alternative pratiche. Ma tutti già sapevano che il debito argentino, ormai sopra il 100% del PIL, sarebbe rimasto insostenibile. Non ci sono riforme economiche che vadano nella direzione di rendere le casse statali meno sconquassate e di sostenere la crescita del paese. E rispetto al passato, non esiste più neppure la speranza di una governance diversa. La presenza della presidenta nell’attuale amministrazione rappresenta l’ostentata volontà del governo di non accettare alcuna riforma necessaria per migliorare le condizioni economiche dell’Argentina. Il decimo default in poco più di 200 anni è dietro l’angolo.

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