Erano attesi e si sono rivelati interessanti i dati macroeconomici resi noti ieri negli Stati Uniti. Nel primo trimestre di quest’anno, la crescita del PIL in termini reali è stata dell’1,1%. Le aspettative in media erano per un +2%, ma soprattutto c’è stata una forte frenata rispetto al +2,6% del quarto trimestre del 2022. Si è trattato del dato più debole dal secondo trimestre dello scorso anno, quando il PIL americano si contrasse dello 0,6%. Ad avere contribuito positivamente alla crescita della prima economia mondiale sono stati i consumi privati per il 2,48%, le esportazioni nette per lo 0,11% e la spesa pubblica per lo 0,81%.

Viceversa, gli investimenti hanno inciso negativamente per lo 0,07%, così come le scorte per il 2,26%.

Inflazione su, grana per FED

Se la crescita del PIL ha tirato bruscamente il freno a mano, al contrario l’indice PCE relativo ai prezzi per i consumi personali è salito nel primo trimestre del 4,2%, accelerando dal 3,7% del trimestre precedente. Al netto di energia e generi alimentari, ha segnato +4,9% contro il precedente +4,4%. Nel complesso, questi dati ci dicono che l’economia americana starebbe rallentando fino a prospettare nel medio termine una possibile recessione. Invece, l’inflazione continua a salire. Questo è un grosso grattacapo per la Federal Reserve del governatore Jerome Powell. Da un lato, serve il rialzo dei tassi d’interesse per frenare la crescita dei prezzi al consumo, dall’altro servirebbe cessare la stretta per sostenere la crescita del PIL.

Sembra scontato che al board di inizio maggio la FED alzi i tassi di un altro 0,25%, portando il costo del denaro al 5,25%. Lo scontano anche i rendimenti in decisa risalita ieri sul mercato sovrano a stelle e strisce. Il decennale segnava un aumento di oltre 8 punti base sopra il 3,50%, la scadenza a 2 anni di ben 13 punti al 4,05%. Pur lievemente indebolito dopo la pubblicazione dei dati, il cambio euro-dollaro restava sopra 1,10.

Crescita PIL giù, spettro stagflazione

Vi ricordate il termine “goldilocks” con cui la stampa mondiale definiva la condizione in cui versavano prima della pandemia le economie più ricche? Era un combinato tra crescita moderata e bassa inflazione. Adesso, siamo nello scenario opposto. Ed esiste un termine per definirlo da mezzo secolo a questa parte: stagflazione. In pratica, crescita del PIL giù e inflazione su. Il peggio che possa capitare a un’economia. Significa che per fermare la seconda bisogna sacrificare la prima al punto da provocare una forte recessione. In alternativa, si rischierebbe di colpire il potere di acquisto delle famiglie per un periodo prolungato con la conseguenza di scatenare ugualmente una recessione per effetto della crisi dei consumi.

Quale impatto dai dati americani sull’Eurozona? La Banca Centrale Europea certamente alzerà i tassi dello 0,25% o dello 0,50% a maggio. Verosimile che decida di proseguire la stretta monetaria anche a maggio. Se l’economia americana nel frattempo rallentasse vistosamente, mettendo in allarme la FED, la pressione su Francoforte verrebbe parzialmente meno per continuare ad alzare i tassi. Ma resta il fatto che, senza una discesa convincente dell’inflazione negli Stati Uniti e nell’Eurozona ad aprile, un arresto della stretta non risulterebbe credibile. Ed ecco perché ieri lo spread si è leggermente allargato in area 190 punti base e il rendimento del BTp a 10 anni è salito al 4,35%. Il mercato sconta per il momento la necessità di una ulteriore restrizione monetaria.

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