Il 4 marzo si terrà la nuova riunione dell’OPEC per decidere il da farsi sull’offerta di petrolio degli stati membri del cartello. E alla vigilia del meeting, Arabia Saudita e Russia si mostrano in contrasto. Riad punta a mantenere invariata la produzione, mentre Mosca conferma la sua linea, già espressa nei precedenti due incontri, di tornare ad alzarla. Le mutate condizioni di mercato darebbero ragione ai russi. Ieri, le quotazioni del Brent sono salite a quasi 67 dollari, il livello più alto da fine 2019.

Quest’anno segnano un rialzo di quasi il 30%.

L’Agenzia internazionale per l’energia stima in deciso calo le scorte mondiali di greggio, mentre Goldman Sachs profetizza quotazioni a 75 dollari al barile nel terzo trimestre. L’eccesso di domanda dovrebbe crescere nei prossimi mesi, perché a fronte della ripresa economica globale, l’offerta non segue di pari passo. L’OPEC, che nel complesso produce quasi un terzo dei barili nel mondo, la tiene di 7 milioni di barili al giorno più bassa rispetto ai livelli pre-Covid.

Alla riunione di marzo, bisognerà decidere su due aspetti-chiave: se implementare l’aumento programmato della produzione di 500 mila barili al giorno dal mese di aprile, “congelato” dalla riunione di inizio gennaio; cosa fare del taglio autonomo dell’offerta da 1 milione di barili al giorno intrapreso dai sauditi per febbraio e marzo. Riad ritiene che il rally sia tutt’altro che scontato per i prossimi mesi. In effetti, ad alimentarlo concorrono fattori non strutturali, come le gelate che stanno paralizzando il 40% delle estrazioni nel Texas, e la scommessa del mercato sui contratti futures per proteggersi dalla reflazione in corso.

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Il brutto colpo per l’Occidente

Trovare una sintesi non sarà facile. Gli alleati dell’OPEC dei sauditi versano in condizioni molto meno fortunate, con paesi come la Nigeria al collasso economico a causa del mini-barile.

Questi hanno da un lato l’esigenza di estrarre più greggio per aumentare i ricavi, dall’altro quella di venderlo a prezzi quanto più alti possibili. Anche stretti alleati geopolitici come il Bahrein e l’Oman hanno bisogno di quotazioni molto più alte per avere conti pubblici in ordine. A dire il vero, gli stessi sauditi dovrebbero incassare almeno 80 dollari al barile per centrare il pareggio di bilancio. Ma a differenza di molti membri dell’OPEC, dispongono di riserve valutarie elevatissime con cui fronteggiare serenamente le scadenze a breve e medio termine.

Ad ogni modo, il regno tiene sotto scacco un po’ tutto il pianeta in questa fase. L’Occidente non può permettersi una reflazione veloce, altrimenti le sue banche centrali dovrebbero ritirare gradualmente gli stimoli monetari prima del previsto. E i governi non avrebbero più il sostegno di cui hanno bisogno per continuare a indebitarsi a costi contenuti a favore della ripresa delle rispettive economie. Il greggio, così come le altre materie prime, è strettamente legato ai livelli d’inflazione, incidendo sui costi energetici.

Dunque, il ministro del Petrolio, Abdulaziz bin Salman al Saud, possiede l’arma nucleare con cui costringere tutti gli altri a trattare alle proprie condizioni. Se decidesse di immettere sul mercato in un solo colpo quel milione di barili al giorno tagliato da inizio febbraio, le quotazioni si schianterebbero, similmente a quanto avvenne nell’aprile dello scorso anno, quando Aramco alzò di proposito la produzione nel bel mezzo del crollo della domanda, così da spingere gli alleati dell’OPEC a tagliare la loro. Probabile che Riad punti a ridurre il taglio dell’offerta a meno dei 500 mila barili ad oggi sul tavolo. Per frenare la corsa alle estrazioni, però, minaccerà il cartello di usare in tutto o in parte i barili sottratti dal mercato.

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Il ruolo della Russia

Il ministro e vice-premier russo Alexander Novak vorrebbe approfittare del boom dei prezzi per aumentare le estrazioni e sostenere l’economia domestica. Tuttavia, Mosca non ha alcun bisogno di correre ad alzare la produzione, avendo un bilancio statale in ordine e programmato quello di quest’anno sulla base della previsione di un barile a 45,30 dollari in media. Alle quotazioni di ieri, incassava più di 4.900 rubli per barile, il 30% in più di quando il Brent arrivò a quotare sopra i 110 dollari nel 2014.

La vera incognita, nonché speranza per i paesi importatori, risiede nell’opportunismo dei paesi con l’acqua alla gola e membri dell’OPEC, i quali approfitterebbero del balzo dei prezzi per aumentare le esportazioni. Di fatto, accade quasi sempre nella storia dell’organizzazione. Ma Riad ha segnalato l’anno scorso che è pronta a punire chi la prende in giro, fossero anche i fidi alleati degli Emirati Arabi Uniti, umiliati in videoconferenza nel corso di una riunione estiva. Finché lo “shale” americano non tornerà a risalire la china, i sauditi avranno in mano le chiavi della ripresa mondiale. E con un’amministrazione Biden poco incline a incoraggiare le estrazioni domestiche, la strada per cancellare le ferite del Covid appare lunga.

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