Con una popolazione di circa 25 milioni di abitanti e un pil stimato di poco oltre 30 miliardi di dollari, nessuno si azzarderebbe ad affermare che la Corea del Nord sia un paese ricco. La sua economia resta esposta a rischi di carestia alimentare, come quella che nella metà degli anni Novanta provocò ben due milioni di morti. L’assenza di ogni forma di libertà anche nel campo economico aggrava lo stato di arretratezza di Pyongyang, anzi ne è la causa fondamentale, considerando che la Corea del Sud vanti un pil pro-capite di circa 23 volte più alto.

Eppure, lo stato comunista potrebbe essere davvero molto ricco se lo volesse. Il paese siederebbe, infatti, su una montagna di oltre 200 minerali, tra cui oro, ferro, zinco, terre rare e grafite, che una società mineraria statale sudcoreana stima complessivamente dal valore di 6.000 miliardi di dollari, mentre un istituto di ricerca di Seul arriva a valutare in 10.000 miliardi di dollari. A titolo di confronto, nel 2014 il Nord povero ha estratto ferro per 3,4 milioni di tonnellate, il Sud ricco per appena 600.000. (Leggi anche: Corea del Nord tra rischio carestia e piani nucleari)

In pratica, mentre la popolazione nordcoreana vive in condizioni di privazioni, essa potrebbe godere di una ricchezza potenziale fino a 200-300 volte più alta, se solo fosse in grado di sfruttare le sue immense risorse minerarie. Una situazione del tutto simile a quella del Venezuela, altro stato di tendenze socialiste, che nonostante detenga le maggiori riserve petrolifere al mondo e un’infinità di minerali disponibili, tra cui l’oro, i suoi 30 milioni di abitanti stanno patendo letteralmente la fame.

Cina mercato di sbocco quasi unico per Corea del Nord

Nel marzo del 2016, una risoluzione dell’ONU ha imposto alla Corea del Nord il divieto di esportare minerali, una ritorsione per i suoi test militari nella regione.

Va detto, tuttavia, che ancor prima di tale embargo, Pyongyang non mostrava alcuna capacità di esportare parte rilevante della sua ricchezza mineraria. Le sue esportazioni non arrivano al 10% del pil e risultano inferiori alle importazioni. Circa il 90% degli interscambi commerciali si hanno con la sola Cina, che rappresenta anche il principale acquirente di minerali con una quota del 54%. Ma essenzialmente i nordcoreani vendono ai cinesi carbone per il controvalore di 1 miliardo di dollari (dati 2015), pari al 40% delle esportazioni totali. Proprio con l’adesione alle sanzioni ONU, Pechino ha sospeso dalla fine di febbraio le importazioni di carbone dalla Corea del Nord, con l’effetto di averne fatto sprofondare del 51,6% le esportazioni del regime di Kim Jong-Un, anche se nello stesso mese risultavano esplose del 270% le importazioni cinesi di ferro dal paese confinante. (Leggi anche: Cina rispedisce carbone in Corea del Nord e aderisce a sanzioni ONU)

Nell’agosto dello scorso anno, le autorità egiziane intercettarono nel Canale di Suez una nave carica di quasi 2.100 tonnellate di ferro proveniente dalla Corea del Nord, tra cui si nascondevano persino 30.000 granate, segno che Pyongyang cercherebbe di aggirare le sanzioni con traffici illegali di materiale a potenziale uso bellico (in favore dell’Iran?).

Sotto Kim Jong-Un, ricchezza resterà non sfruttata

Come mai la feroce dittatura non è in grado di sfruttare una simile ricchezza, che le sarebbe comoda anche per finanziare le sue elevatissime spese militari, le quali oggi assorbono circa un quarto del pil nazionale? Secondo Llyod R.Vasey, fondatore del think-tank Center for Strategic and International Studies, la produzione mineraria, che comunque vale il 14% del pil nordcoreano, sarebbe diminuita nel paese sin dagli inizi degli anni Novanta e oggi viaggerebbe a meno del 30% della capacità. Le cause di questo declino starebbero nella scarsa dotazione di infrastrutture (solamente il 3% delle strade risulta asfaltato nel paese), nella carenza di energia e nella generale depressione economica dello stato.

Non aiutano affatto, poi, il divieto di ogni forma di iniziativa privata e la chiusura ai capitali stranieri, perché così stando le cose, solamente lo stato di Pyongyang potrebbe sfruttare le miniere, ma non ha le risorse per farlo.

Prendiamo le terre rare, un insieme di 17 elementi della tavola periodica, che vengono impiegate dall’industria per la produzione dei dispositivi elettronici e che stanno diventando una materia prima sempre più preziosa. Si stima che la Corea del Nord possegga riserve per 20 milioni di tonnellate su un totale di 120 milioni di tonnellate nel resto del mondo, di cui 40 in Cina, primo produttore mondiale con una quota di mercato dell’83% nel 2016 (105.000 tonnellate prodotte, di cui quasi un terzo esportate).

In pratica, mentre il mondo si affanna a trovare una soluzione per rispondere alla crescente domanda di terre rare, l’offerta globale risulta inferiore al suo potenziale, a causa dell’incapacità di Pyongyang di estrarle ed esportarle, nonostante avrebbe più bisogno che mai di dollari e di un generale aumento del benessere. E contrariamente alla Cina degli ultimi decenni o all’ultima fase dell’Unione Sovietica, il brutale regime di Kim Jong-Un non sembra né intenzionato, né in grado di uscire dall’isolamento economico e dalla chiusura ideologica in cui si trova da una settantina di anni. Solo il passaggio verso una dittatura più pragmatica o a un vero e proprio cambio di regime consentirebbe a questo piccolo stato della penisola coreana di uscire dalla povertà, sfruttando ciò che ha già sottomano. (Leggi anche: Forme di capitalismo in Corea del Nord, ma economia resta nelle mani di Kim Jong-Un)