Gli errori dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) nella gestione dell’emergenza Coronavirus sono stati tanti e molto gravi. E da qualche giorno, l’America ha iniziato ad alzare la voce, attaccando duramente e a testa bassa il suo presidente Tedros Adhanom Ghebreyesus, i cui limiti sono stati evidenti fin quasi da subito. Era il 28 gennaio e l’ex ministro della Salute prima e degli Esteri dopo dell’Etiopia, una dittatura di stampo comunista e per questo simpatizzante della Cina, si recava a Pechino, dove al termine di un incontro con il presidente Xi Jinping comunicava al mondo che a Wuhan fosse tutto sotto controllo, minimizzando la portata di quella che si sarebbe trasformata nelle settimane successive come una catastrofe sanitaria ed economica globale.

Dall’OMS non arrivarono linee guida capaci di tutelare la salute degli abitanti della Terra, contravvenendo al suo ruolo di lotta alle epidemie. Nessuno da questo ente suggerì ai governi che i positivi al Coronavirus non dovessero recarsi nei pronto soccorso ordinari, altrimenti avrebbero alimentato un focolaio, come avvenne nel febbraio scorso all’ospedale di Codogno, nel lodigiano. Al contrario, il suggerimento arrivato sulle mascherine ha seminato confusione e fatto sprecare tempo prezioso nella lotta all’emergenza, aggravandola alquanto. Secondo l’istituto, infatti, non sarebbe stato di alcuna utilità pratica indossarle, mentre è emerso che molti pazienti positivi da Coronavirus risultino asintomatici e coprendosi naso e bocca eviterebbero di contagiare inconsapevolmente gli altri.

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La rivolta americana contro l’OMS

Insomma, i governi si sono dovuti arrangiare, peraltro affidandosi alle scarne informazioni giunte dalla Cina, dove i ritardi nell’affrontare l’epidemia si sarebbero rivelati fatali. Alcuni medici di Taiwan scrissero alla fine di ottobre all’OMS per informarla di avere scoperto che il virus si trasmettesse da uomo a uomo.

La lettera fu ignorata, forse perché al presidente dell’organizzazione non fa simpatia l’isola ribelle contro Pechino. I primi decessi cinesi furono registrati alla metà di dicembre e, tenuto conto dei tempi di incubazione della malattia e del suo decorso fino all’epilogo mortale, al più tardi nella regione di Wuhan il Coronavirus si era materializzato alla fine di novembre. Dov’era l’OMS, che ancora oggi rifiuta di classificare la pandemia come di “origine cinese”?

Eppure, l’organizzazione definiva “pandemia” il Coronavirus solamente l’11 marzo scorso, quando già dilagava in Europa, travolgendo per prima l’Italia. Anziché essere di aiuto, si è rivelata una fonte a sua volta di aggravamento della situazione, come quando consigliò ai governi di non chiudere le frontiere alla Cina. “Per fortuna”, ha commentato nei giorni scorsi il presidente americano Donald Trump, “non le ho dato retta”. E dai repubblicani si levano commenti molto critici verso l’OMS, con i senatori Rick Scott e Marco Rubio a chiedere indagini e con il Wall Street Journal a invocare che si faccia chiarezza sul ruolo di Ghebreyesus, un politico e non un medico, eletto a capo dell’ente con il sostegno degli amici comunisti di Pechino.

Le ritorsioni in vista contro la Cina

Il quotidiano finanziario si chiede che senso abbia un uomo che faccia politica a capo di un’organizzazione che dovrebbe occuparsi solamente di salute. E Trump prende la palla al balzo per segnalare come l’America contribuisca a finanziare l’OMS per il 22% del totale, contro il 12% della Cina. Perché mai, si chiede, essa debba essere così filo-cinese, se i soldi glieli mettono, anzitutto, proprio gli USA? La tossicità di questo organismo internazionale è solo il primo tassello di un puzzle che si andrà componendo nei mesi prossimi e che, superata l’emergenza, farà emergere una resa dei conti internazionale tra Cina e Occidente.

Non è un caso che Pechino, consapevole di averla fatta molto grossa, abbia inviato dispositivi medici all’Italia, fiutando come la sua opinione pubblica, sentitasi abbandonata dagli alleati storici europei, si mostrerà probabilmente più tenera nei suoi confronti quando la pandemia sarà un brutto ricordo.

Trump, peraltro in piena campagna elettorale, ha tutta l’intenzione di andare “all in” contro la Cina. Deve il suo ingresso alla Casa Bianca proprio alla sua linea anti-cinese sull’economia, ma adesso che anche gli americani contano i loro numerosi morti per un virus che arriva da Pechino, quale migliore occasione per accelerare i piani di scontro con il Dragone? Il regolamento dei conti non avverrà in un tribunale, difficilmente vedremo Washington fare le pulci al regime su tempi e modi di gestione della pandemia a Wuhan, anche se l’inaffidabilità dei dati cinesi su numero di contagiati e decessi appare ogni giorno più lampante. Sarà sul piano degli scambi commerciali e dei processi produttivi che la Cina pagherà cara la sua mancanza di trasparenza.

Verso una nuova globalizzazione

L’obiettivo di sempre di Trump è la regionalizzazione delle produzioni, cioè la fine della globalizzazione come la abbiamo vissuta nell’ultimo ventennio. Il mondo non tornerebbe ai mercati nazionali, ma verrebbe suddiviso in grossi blocchi geopolitici, ciascuno con una sfera d’influenza propria e fuori dalla quale non dovrebbe metter piede. Le aziende si sposterebbero all’interno di ciascun blocco, con caratteristiche macroeconomiche grosso modo omogenee, in cui la concorrenza sia dei costi che normativa e fiscale sarebbe contenuta. Secondo questa ottica, se ne gioverebbero le classi medie, con i livelli di occupazione salvaguardati più di oggi. I capitali, invece, continuerebbero verosimilmente a muoversi in tutto il pianeta.

Alla Cina questo discorso non piace, essendo divenuta la manifattura del mondo. Ma proprio la sua mancata gestione della pandemia nelle prime fasi ha fatto scappare i buoi dal recinto, costringendo ad azioni draconiane a gennaio, con la chiusura di Wuhan e il blocco delle attività, replicato in tutto il mondo nelle ultime settimane.

E l’interruzione della catena produttiva ha reso evidente la necessità per ciascuno stato di assicurarsi almeno la produzione di beni primari sul proprio territorio, mettendo in discussione un caposaldo della globalizzazione. Il regime intuisce che per cercare di nascondere al mondo la pandemia è finito per provocare un disastro di portata biblica, ma con ripercussioni assai pesanti per la propria economia in prospettiva. Con la complicità di una OMS connivente, ha messo in ginocchio il resto del pianeta e tra qualche mese gli sarebbe presentato un conto salatissimo.

Il Coronavirus è la tempesta perfetta che pone fine alla globalizzazione?

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